giovedì 29 novembre 2012

CINA & TIBET


Hong Kong

L'aeroporto è una landa di tapis-roulant e terminal, e non è subito facile orientarsi; dopo la trafila dei visti, chiedo a due solerti hostess di terra un po' di indicazioni, e loro sono liete di darmele. Fuori dall'aeroporto, sulla destra c'è una discesa, in fondo alla quale c'è la biglietteria degli autobus. Non ci si può fermare a fumare una sigaretta neppure qua all'aperto. Prendo l'autobus A21 (per 33 HKD). Dopo un'oretta e mezzo di autobus a due piani alla velocità di un Ciao (colline inaspettatamente verdi e disabitate, la stupenda baia vista dal ponte, palazzoni popolari di 80 piani) imbocchiamo finalmente Nathan Road, una delle arterie pulsanti di neon e carne sudata, negozi di stralusso e merdivendoli. Non è facile decifrare sui cartelli il nome della fermata; scendo allo stop 14 (Middle Road), anche grazie all'anziano autista che a gesti mi conferma che è la fermata giusta. Adesso sono praticamente sulla punta di Kowloon, Hong Kong si staglia imponente di fronte. Nathan Road è un formicaio cyberpunk, ricche cinesi slanciate, venditori arabi ed indiani che bisbigliano, affaristi occidentali paffuti e rosei, straccioni e punkabbestia vari. Grattacieli su cui atterrano elicotteri, vetrine immense. Sembra la Quinta Avenue a NY, ma in salsa di soia. Con lo zainone in spalla sono una preda fin troppo evidente per commerci vari; il tempo di scendere dall'autobus e già cercano di vendermi massaggi, orologi, fumo, più altre mercanzie varie. La temperatura sarà sui 40 gradi, e l'umidità deve essere affrontata con le pinne. Mi addentro nella ChungKing Mansion, una casbah verticale di tecnologie, ciarpame, ristoranti indiani e affari illeciti vari. Africani con le loro lunghe tuniche e i grossi pacchi, il complesso brulica di una variegata fauna umana, sembra un'immagine dei volantini dei Testimoni di Geova, in cui tutte le razze coesistono felici (più o meno). Blocco B, quinto piano, mi accoglie Simon della GuengDong Guesthouse. Uno come Simon se non lo vedi non puoi capire. Sa già chi sono, che domani arrivano gli altri, mi fa la gentilezza di darmi una camera più larga perchè sono più alto di quanto pensasse (Ooooh! Vely tal italian!).
Poi mi spiega ogni singolo pulsante della stanza-loculo (sembra quella di Pozzetto nel film, tavolino-Tac, televisore-Tac). Vorrei solo riprendermi un attimo, per cui lo ringrazio dicendogli che so già tutto. Gli do un totale di 35 euro in HKD (finita la pacchia filippina) e mi consegna la chiave elettronica ("Se tu avele bisogno busale folte Bum Bum Bum sulla mia polta"). Dopo una doccia rigenerante, mi butto nel flusso multietnico di Nathan Road alla ricerca di cibo e crediti telefonici. Anche il tenore dell'oggettistica è notevole, di cose che ingolosiscono ce ne sono parecchie. Intanto mi mangio un Whooper da BK (tanto il cibo tipico di Hong Kong è il fusion assoluto) e poi, dietro consiglio del vecchio Simon, prendo la metro in direzione Central, dove scendo. Imbocco Pedder Street in direzione sbagliata, e dopo diversi futuristici cavalcavia pedonali mi ritrovo vicino al porto, con una vista mozzafiato su Kowloon. Torno sui miei passi verso Lan Kwai Fong, la zona dove di sera pascolano i fighetti della città; mi accaparro uno sgabello al George Pub e mi scolo lentamente la mia mezza litrata di Hoegarden. Si capisce che fra queste vie la vita non smette mai di pulsare, i giovani ricchi (soprattutto bianchi, ops caucasici) hanno a disposizione il loro recinto dorato in cui scorrazzare; mi torna in mente Città del Capo, anche se con le ovvie differenze. Prima di ordinare un'altra birra e perdere i sensi, mi dirigo verso la metro che sta per chiudere; il tunnel passa sotto il mare e mi riporta a Kowloon. Sotto la Chungking Mansion, un ragazzo afghano di nome Khan vorrebbe vendermi del Manali nero grondante olio. Si conclude così il mio 32° compleanno. -"I close my eyes to understand" 
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Ieri ho recuperato gli altri due in ostello e, sebbene fossero distrutti, siamo comunque andati a bere un paio di birre al "The Keg" in Central. Ingurgitato il luppolo fermentato, abbiamo preso un taxi (60 HKD) che ci ha portati direttamente a The Peak, la cima della collina di Hong Kong, la proprietà immobiliare più cara al mondo. E il panorama spettacolare ci fa presto capire il perchè; la vista spazia sull'intera baia, uno scenario di grattacieli a perdita d'occhio che trafiggono le isole. Miliardi di luci sospese che si specchiano sui lembi neri del mare. Ne approfittiamo per bere qualcosa al Bubba Gump, un ristorante a tema sul film Forrest Gump, con reperti di scena e curato nei minimi particolari, con relativo merchandising di magliette ed oggettistica. Per tornare verso Kowloon abbiamo preso il tram panoramico (25 HKD), una funicolare con pendenze vertiginose che scende tutto il crinale della collina, sfiorando quasi i grattacieli che attraversa. Con l'ultima corsa della metro, siamo tornati in ostello dove abbiamo conosciuto un po' di gente e ci siamo aggregati per un mini-party in camera mia. Sono tre ragazze e un ragazzo sino-americani, cioè cinesi che vivono a San Francisco, a cui il governo cinese ha offerto una sorta di riavvicinamento culturale, dando loro la possibilità di vivere un mese in Cina. Ci beviamo del tè con relativo rituale, e poi Tsingtao, rum filippino e Manali. Essendo stati anche noi a Cisco (Luca addirittura per sei mesi) abbiamo parecchi argomenti di discussione; dopo un po' usciamo per prendere una boccata d'aria. Ci siamo avventurati verso il porto per una passeggita sullo Stars Walk, il lungomare in stile hollywoodiano con le impronte delle stelle del cinema cinese. C'è anche una grande statua dorata di Bruce Lee. Sebbene la città sia un formicaio, qui è abbastanza deserto, un'atmosfera insolitamente ovattata rende ancora più irreale uno scenario già onirico. Hong Kong si riflette nelle sue acque come Narciso, scattiamo una marea di foto in lunga esposizione, finchè siamo stanchi ed andiamo a letto. Risveglio tranquillo, impacchettamento bagagli e via, direzione stazione di Hung Hom per fare il biglietto. Da qui, di nuovo in metro fino a Lu Wo, per passare il confine a Shenzen ed entrare finalmente in Cina. Veloci formalità, solito modulo e check delle borse; dopo un paio di tentativi falliti, riusciamo finalmente a prelevare mazzette di Yuan ed eccoci qua, in attesa che il nostro T38 ci porti a Guilin (arrivo previsto domattina alle 7:00).Speriamo che il resto della Cina sia più economico di Hong Kong, lì è difficile spendere meno di un centinaio di euro al giorno; inoltre il biglietto per Guilin (con cuccette di prima classe in mini-stanze da due con bagno) ci è costato una novantina di euro. Impareremo presto che per viaggiare in treno, è meglio acquistarli un po' prima per evitare di dover ripiegare sulla prima classe, o peggio sulla quarta. 

Guilin

Arriviamo all'alba nella triste periferia cementificata di Guilin. Intrallazzoni, tassinari, in centro qualche negozietto interessante; in 10 minuti siamo al Backpackers Hostel (100 yuan a notte). Ci danno una tripla essenziale con bagno. Nell'ostello stesso noleggiamo tre bici e ci lanciamo alla conquista della città. La prima tappa consiste nelle due pagode, del Sole e della Luna, notevoli solo perchè una delle due è la pagoda in rame più alta della Cina (o dell'Asia?Mah..) e per il tunnel subacqueo che le collega. In, cima, mentre ci rilassiamo guardando le curiose formazioni rocciose che circondano la città da ogni lato, veniamo avvicinati da un gruppo di mamme con figlie, ci chiedono se vogliamo posare con loro per delle foto, e ne approfittano per scambiare qualche semplice frase in inglese. Poi ci inerpichiamo a piedi sul Picco della Bellezza Solitaria, una specie di enorme monolito dentro la città, in cima al quale ci sono un paio di punti panoramici notevoli. La salita è resa straziante da un caldo umido avvolgente, tanto che a metà del percorso sono istallati dei ventilatori per asciugarsi vestiti madidi e fronti perlate di sudore. In cima ci rilassiamo osservando la città a 360 gradi. Dopo un pranzo pomeridiano in una ludreria aldilà del fiume, ci riposiamo un po' in ostello, mandiamo un paio di mail, nel salone coppiette di turisti zaino-lonely su ogni divanetto. Dopo una cena piccantissima (abbiamo decretato che per mangiare nel sud della Cina è necessaria una fascia frontale parasudore tipo Mc Enroe), andiamo al 100°, una specie di discoteca (si riconoscono dal neon KTV all'ingresso, che vorrebbe dire karaoke). Sembra di essere proiettati venti anni addietro: le prime innocenti trasgressioni, qualcuno balla, la cubista è più vestita di una normale quattordicenne milanese. Addirittura delle guardie con elmetto (tipo antinfortunistica, non si capisce a cosa dovrebbe servire) controllano il regolare svolgersi della serata. Un gruppo di ragazzi del tavolo di fianco tenta di stabilire un ponte, ci offrono sigarette e shot semi-alcolici, ma il fatto che ignorino l'inglese, e ovviamente noi il cinese, ci preclude qualsiasi possibilità di comunicare. 

LongSheng Terraces

Stamattina presto siamo partiti da Guilin, alla volta delle Terrazze di LongSheng (o altrimenti dette "la schiena del drago"). Un paio d'ore di autobus (di cui l'ultimo tratto su mini pulmino, visto che la strada si restringe e si inerpica su tornanti da brivido) ed arriviamo in questo paesino isolato. Ha un aspetto insolito, le case sembrano baite svizzere addobbate con le lanterne rosse. Il paese si snoda tra i terrazzamenti di riso, ai lati della strada qualche venditore offre le sue mercanzie; interessanti diversi tessuti e delle "fette" di marmo che hanno venature identiche a quelle della carne, tanto che sono tagliate come bistecche e braciole, e solo da vicino ci si accorge che è pietra. Inoltre vendono miele a blocchetti, semplici pezzi di favo squadrati come sapone. Le donne del luogo si acconciano i lunghissimi capelli neri in turbanti di fogge diverse, a seconda che siano nubili, sposate senza figli o con prole. L'etnia tende al laotiano-birmano. Degli uomini del luogo trasportano su delle portantine di legno i turisti più svogliati, visto che la salita verso il villaggio e le terrazze è blandamente impegnativa; il prezzo del passaggio è di 2 yuan per chilo trasportato. Fra noi nasce una discussione su quanto sia etico un lavoro così, se non sia umiliante; io trovo che sia un lavoro come un altro, che anzi fa guadagnare ai portatori parecchio di più di chi si spezza la schiena nei campi di riso. Inoltre svolgono un servizio anche per i disabili, visto che il posto è un'unica grossa barriera architettonica, e così tutti possono raggiungere agevolmente la cima. La vista dall'apice, su cui sventolano tre bandiere cinesi, è notevole, a patto che non siate vecchi amici dell'Asia; altrimenti, è solo una bella valle terrazzata a riso. Ce la godiamo mangiando una fetta d'anguria. Col pulmino raggiungiamo un altro villaggio, dove le donne del posto inscenano uno spettacolo con i loro canti, i loro arcolai e gli altri strumenti quotidiani che usano. Dopo, mi offro volontario per una finta cerimonia di matrimonio con una giovane del luogo, e ne approfitto per scattare qualche foto nel "backstage" dove le donne mi vestono con qualche indumento tipico e mi spiegano il rituale. Sono praticamente obbligato ad acquistare un anellino (o qualche bigiotteria che non ricordo) da donare alla "sposa", ma il prezzo è esiguo e il tutto è molto divertente. La ragazza che scelgo mi arriva praticamente alle costole. Balli, canti, prove di virilità (come pestare farina di riso in un grosso mortaio o correre con la moglie in spalla ecc), insomma il pomeriggio scorre. Il presentatore mi chiede anche di cantare e mi ricorda l'obbligo di passare la notte con la sposa, gli rispondo con un po' di imbarazzo che ci penserò. Dopo, passeggiamo un po' lungo il fiume, attraversato da un ponte di catene su cui turisti e vecchie oscillano come navi in tempesta. Torniamo a Guilin, dove ceniamo, la cameriera parla inglese e ci racconta un po' di ciò che pensa, che sogna ecc. Dice che vorrebbe girare il mondo, che la Cina le va stretta ecc. Lavora lì da un paio di giorni, le ordiniamo un altro paio di birre per non far sembrare che stia perdendo tempo con noi. Dopo un po' la salutiamo, andiamo a ballare al Max , che è praticamente un copia ed incolla del locale di ieri. 

Yangshuo

Oggi, dopo lo sbattimento in stazione a prendere il biglietto per Kunming, ci siamo imbarcati su una bamboo boat alla volta di Yangshuo. Si tratta di imbarcazioni lunghe da una decina di posti con un semplice scafo di bambù (o di tubi di plastica) e un motore. Condividiamo il viaggio con tre spagnoli molto allegri, la crociera sul fiume Li è godibilissima ed il panorama di picchi aguzzi e ammantati di verde a perdita d'occhio è indimenticabile; dei martin pescatore si tuffano nell'acqua vicino alle rocce. Non sono facile agli entusiasmi ma le due ore sul fiume sono davvero piacevoli. Scesi dalle imbarcazioni, ci pigiamo in un furgoncino con gli spagnoli e delle ragazze cinesi, percorriamo polverose strade di campagna che corrono parallele al fiume; sugli alberi strani frutti che sembrano enormi pere. Siamo contenti di avere incluso nell'itinerario anche una tratta via terra, il panorama bucolico sembra una felice cartolina maoista. Dopo un'oretta di viaggio raggiungiamo finalmente Yangshuo; sembra decisamente a misura d'uomo, lungo il fiume bancarelle e anziani pescatori con i cormorani. Il viale centrale del paese è un susseguirsi di negozietti con dell'artigianato interessante. Non dobbiamo camminare molto per trovare l'hotel che fa al caso nostro: il White Lion, proprio in centro alla parte antica di Yangshuo. Paghiamo 180 yuan la tripla, che è pulita e bene arredata, e con un balconcino che si affaccia sul via vai pedonale sottostante. Un paio di giorni sono sufficienti per godersi i dintorni e rimettersi in forze, e ripartire alla volta di Guilin.

verso Kunming

La pace di Yangshuo è già un ricordo. Siamo nell'affollata stazione di Guilin in attesa del treno delle 16:56 per Kunming. Fuori dalla stazione qualche storpio e un lebbroso. Riusciamo a rimediare solo un biglietto di quarta classe (hard seat) in mezzo ad una fauna umana che è tutto un programma. Un vecchio si ostina a parlare con noi in cinese (scambiare quattro chiacchiere in lingue che non sai).I sedili sono studiati per essere scomodi qualunque posizione si assuma, e noi abbiamo di fronte un viaggio di una ventina d'ore. Il capovagone mi offre sottobanco un lettino in seconda, per 120 yuan, ma non mi va di abbandonare gli altri lasciandoli al loro destino. Cerchiamo di non demoralizzarci; quando cala il buio, la gente si contorce e si infila in ogni interstizio per cercare di dormire un po', ma è una tortura, teste ciondolanti, il solito ciccione che russa come un grizzly, mugugni e rantoli vari. Ci giriamo senza pace come cani rognosi. Manca solo la famosa vecchia con la rana. Il top lo raggiungiamo quando il vecchio (denominato Danny the Dog) davanti ad Ale e Luca si alza, si gira appoggiandosi con le braccia al sedile, e dopo cinque minuti si lascia andare in una rumorosa flatulenza nell'indifferenza generale. Noi scoppiamo a ridere e ci rifugiamo nel giunto fra i vagoni a prendere un po' d'aria. Decido di avere perso la dignità da almeno un'oretta, non mi riesco a sistemare in nessun modo per più di tre minuti, per cui prendo il mio tappeto turco e lo butto in terra sotto il quadro elettrico del vagone, dove riesco a ricavarmi un metro quadro in posizione fetale. Funziona, e per un paio d'ore riesco anche a dormire, finchè il capovagone mi fa spostare perchè deve armeggiare con levette e bottoni luminosi. Il panorama all'alba (dovremmo trovarci nei dintorni di Weishe) è spettacolare. Valli con laghi e appezzamenti coltivati disposti in modo bizzarro. Campi di fiori arancioni, colline di girasoli, riso e mais. Su una montagna bellissima sono seminascoste qua e là delle tombe bianche rivolte verso il sole che nasce. L'armonia del panorama rende meno amare scomodità e scaccolamenti vari. Ogni volta che mi sveglio dal torpore vedo gente diversa, o posizionata diversamente; alle stazioni sembra che ne scendano 10 e ne salgano 50. Ora saranno le 9:00 e siamo dei ragni, non vediamo l'ora di arrivare a Kunming. Si intensifica il fenomeno degli occhi sgranati rivolti verso di noi: non si capacitano di occidentali in quarta classe. L'arrivo nella stazione di Kunming è uno scontro con le ottuse formalità cinesi. Immaginate 3000 cinesi che scendono dopo 20 ore di treno, e vogliono fuggire a lavarsi e ad appoggiare le galline. L'astuto funzionario ferroviario cinese, invece, sistema un tornello in cui convogliare la folla per strappare il biglietto (tra l'atro già datato e timbrato). Il risultato è una coda oceanica. Superato questo ostacolo ci tocca l'ultimo supplizio: la coda per fare il prossimo biglietto. In fila davanti a noi una coppietta di ragazzi, ci facciamo scivere su un foglietto data e destinazione; inoltre sul tabellone in ideogrammi e con schermata da 5 secondi, individuiamo il treno esatto. Non basta. Quando è il nostro turno, consegniamo il "pizzino" alla bigliettaia, una sciura occhialuta sulla quarantina. Lei guarda il biglietto, poi ci guarda come se le avessimo chiesto una datazione, precisa al giorno, di un lembo della Sindone. Non basta il nostro gesticolare (cuccette=segno della nanna, tipo gioca jouer). Si alza perplessa e chiama una collega più giovane. La fila di cinesi aspetta paziente. C'è un tornello anche in biglietteria, per cui devo sporgermi per assistere Luca nella stipulazione del biglietto per Chengdu, che dopo tante tribolazioni riusciamo finalmente ad ottenere. 

Kunming

La zona attorno alla stazione è popolata da qualche faccia poco raccomandabile; saliamo sul taxi (che ha la griglia metallica) e al primo incrocio un poliziotto consegna al tassista una fotocopia con le foto dei ricercati del giorno. Andiamo bene! Scendiamo al Seagull hotel, di fronte ad uno degli ingressi del Parco del Lago Verde. Paghiamo 300 yuan la tripla; camere anonime, triste moquette grigia. Le cameriere bussano due volte, la prima per rifare i letti, la seconda per darci il tè o qualcosa di simile. Noi, dopo il viaggio della speranza, abbiamo solo voglia di lavarci e fare un pisolino, per cui le invitiamo a tornare dopo o mai più. Narcolessia diffusa, gag sulle microspie del Partito piazzate ovunque (Mao di m.. cioè.. Grande Mao!). Serata nel mercato notturno, in realtà un quadrilatero di negozi con aspirazioni occidentali. Solita piazza al neon e discoteche che pompano hardcore (cinese!). Il giovane autoctono trasgressivo è una specie di emo coi capelli cotonati, una cosa che fa passare l'appetito. Ma non a noi, infatti entrimo in un ristorante in cui assaggiamo praticamente tutti i primi locali, ravioli trasparenti al vapore, linguine piccanti, tortini dolci con ripieni indefiniti (fichi? alghe? mah..). Dopo il ruttino, entriamo in una discoteca, è piena ma è talmente inutile che usciamo senza neanche bere. Presenza di occidentali pressochè nulla, infatti ci guardano spesso con occhi sgranati ("I'm an alien in Kunming.."). Per strada banchetti espongono ogni tipo di carne immaginabile da grigliare al momento, gamberi di fiume, larve, fegati, cavallette, cervelli (dalle dimensioni direi di pecora, nella migliore delle ipotesi). Qui va moltissimo l'anatra, te la trovi ovunque, nelle zuppe ci mettono pure teste e zampe. 

Dali

Dopo una pulmanata di 6 ore, eccoci finalmente a Dali. L'ultimo terzo del viaggio, essendo chiusa per lavori una parte dell'autostrada, lo abbiamo fatto attraverso le montagne, inerpicandoci su tornati affacciati su stupendi paesaggi di campagna, vediamo passare donne di etnia Bai con i loro elaborati copricapi. La periferia di Dali è terrificante, edifici alti e brutti, rottamai, modernità scadenti. La guida dice che a Dali abitano 40.000 persone, forse parla della sola città vecchia: infatti la vallata sembra Città del Messico, i pendii totalmente ricoperti di case. Bus-triciclo, poi un tratto in pulmino, ed eccoci a Dali vecchia, un dedalo di viette e decorazioni, forse un po' artificiale ma piacevole, ruscelletti e cascatelle nelle vie, tutto molto curato. ristoranti all'aperto, negozietti di artigianato; fra gli oggetti degni di nota quelli di marmo (vasi, sculture), poi gli onnipresenti pettini di bufalo, qualche ceramica, braccialetti di giada, medaglioni delle festività, flauti fatti con zucche e bambù, per il resto la solita chincaglieria. Molti turisti cinesi, pochissimi occidentali. Delle donne Bai offrono ganja e un nero con un retrogusto di fieno. Ceniamo in una piacevole vietta ai bordi di un canaletto, tra le lanterne rosse; un ratto corre felice tra i tavoli ma nessuno lo prende sul serio. Il clima qui è molto più fresco che nelle umide pianure, di sera si sta bene a maniche lunghe. Troviamo un hotel anonimo in una via traversa, 100 yuan la doppia, attacco la zanzariera perchè ne svolazzano parecchie. La decisione di noleggiare 3 biciclette per tutto il giorno (30 yuan a testa) è stata la migliore che potessimo fare. Ci siamo diretti verso le tre pagode simbolo di Dali ma, giunti di fronte, abbiamo desistito. A parte i 121 yuan d'ingresso, non ci sembrava che fossero granchè. Per chi è stato in Thailandia questi templi non sono molto interessanti, e in particolare questi sembrano abbastanza spartani. Quindi, dopo dieci minuti di relax nell'ampio spiazzo davanti agli ingressi, rimontiamo in sella e ci dirigiamo verso i paesini che intravediamo sui pendii delle colline che circondano la città. Dopo una lunga pedalata, arriviamo in uno di essi,dove il tempo sembra essersi fermato, uomini col cappello della rivoluzione che parlano e fumano, donne con i costumi etnici che trasportano pesanti gerle colme di pannocchie ed altri ortaggi, bambini che sbirciano da dietro gli angoli e ridendo ci apostrofano wai lai. Le case sono molto caratteristiche, con i muri bianchi dipinti con paesaggi e motivi geometrici neri. Strette strade di ciottoli, una piccola piazza con un negozietto che vende tutto, le poche persone ci osservano curiose. La mtb ci consente di infilarci in ogni anfratto e sentiero, raggiungiamo uno slargo fra le boscaglie dove riposarci un attimo nella frescura della vegetazione. Dopo un po' che siamo lì mi accorgo che attorno a noi ci sono delle piante di canapa, probabilmente spontanee. Continuiamo il nostro percorso per i campi, su sottili sentieri sassosi, dirigendoci verso il lago che intravediamo a fondo valle, sempre cercando di evitare le grosse strade trafficate. In riva al lago ci godiamo una sigaretta, lanciandoci qualche sguardo esplorativo con un capannello di ragazzotti che poco lontano ha la sua base. Pioviggina, ma non dà fastidio. Donne con i cappelli di paglia curve nel riso, muratori che lavorano sotto il sole cocente, vecchi che giocano a dama cinese nella penombra di un circolo. Passiamo in bici per diversi villaggi, percorrendo almeno una ventina di chilometri. Abbiamo poi raggiunto un tempietto abbastanza isolato, con degli edifici ancora in costruzione, attorno solo la casa del custode e di qualche famiglia contadina. Accanto al buddha razzolano maiali ed oche. Nel cortile ci sono delle nicchie di mattoni con dentro il fuoco, i fedeli pregano buttandoci dei mortaretti o bruciando dei parallelepipedi di carta. Entriamo nel tempio, grandi buddha (il principale nella posizione detta "dello scrocchiamento di dita prima della rissa"). Incensi, fogli di preghiera, cuscini su cui qualche fedele si inginocchia e si rialza decine di volte. Fuori il custode, un anziono signore molto gentile, ci invita a prendere il tè con lui, e non possiamo rifiutare la sua squisita ospitalità. Sotto lo sguardo di due statue nella nicchia, una di buddha e l'altra di Mao, consumiamo con lui l'insipida brodaglia bollente, assaporando più che altro l'istante. Abbiamo con lui una lunga discussione, parliamo senza capirci, lui in dialetto montanaro cinese, noi in italiano, ma serve ad accorciare le distanze, capisco ora il significato dell'affermazione "medium is the message". In realtà parlarci l'un l'altro è una comunicazione di per sè, è rassicurante e ci consente di scambiarci impressioni anche se non capiamo niente di ciò che ci stiamo dicendo; la scena è surreale. Il significato è relativo, i concetti principali li mimiamo a gesti. Infatti dopo un po' il vecchio fa il gesto di "se magna" e lo capiamo subito, ci invita a seguirlo nella sua casa. Qui c'è tutta la comunità delle poche case, qualche donna, delle bambine, un bonzo vestito di giallo. Consumiamo il pranzo con loro, riso, insalata bollita, pezzi di pollo, melanzane piccanti, fagioli verdi e rossi, sfogliate di farina di riso, verdure irriconoscibili ma buone. Da bere niente, infatti dopo un po' evito i cibi piccanti, si vede che loro a tavola non bevono e non mi va di fare il piangina. Dopo pranzo ringraziamo e beviamo altro tè, mentre il custode legge un libro di preghiere e sgrana una specie di grosso rosario. Alle sue spalle una donna confeziona delle specie di camicie di carta, forse ad uso cerimoniale, mentre un vecchio muratore lì vicino sta tirano su un muretto di mattoni tutto sbilenco. Un altra lunga pedalata ci riporta in città, dove ceniamo ed andiamo a letto presto, visto che le vasche (o "struscio") nei viali verso mezzanotte è già finito. 

Chengdu

Sul treno per Chengdu. Le cuccette della terza classe sono decenti, una famigliola con nonna e bimba che divide lo scompartimento con noi ci offre biscotti, cicche e strani frutti rossi. Tutti hanno il loro thermos con the e foglie varie, oppure consumano i famigerati spaghetti liofilizzati. La comunicazione, come il solito, è ridotta all'osso. Chengdu ci accoglie come una pezza calda bagnata buttata in faccia; il clima è torrido, l'umidità al 100%, lo smog una coltre spessa che ricopre la città. Fuori dalla stazione i soliti milioni di cinesi che ci guardano stupefatti. Un triciclo per 50 yuan ci porta al Traffic Inn Hotel, un albergone anonimo dove prendiamo una tripla triste (120 yuan). Un sole pallido si affaccia timidamente dalla patina giallo grigiastra del cielo. Soliti palazzoni e incroci trafficati. Il fiume verdognolo è solcato da aironi bianchi. A fianco del nostro hotel c'è l'omonimo ostello, che scopriamo essere luogo di passaggio di una certa fauna eterogenea di viaggiatori e scappati di casa vari. La sera la passiamo con questa compagnia, tra birre, film e partite a ping pong. Giornata dedicata ad uno spensierato cazzeggiare per la città. Prendiamo l'autobus 55 e scendiamo, grazie ad un'attenta analisi del percorso, proprio di fronte al complesso del tempio Wenshu, che si rivela una piacevole sorpresa: è molto ben tenuto, all'interno di una cinta di mura che comprende anche un parco, una sala da the ed altri edifici. Insolitamente è semideserto, per cui possiamo passeggiare tranquillamente senza dover fendere la folla come spesso accade. Ci troviamo ad essere noi, qualche bonzo affaccendato nelle sue cose, un gatto bianco che zampetta indisturbato tra i buddha nella penombra. Un'atmosfera di quiete regna su tutto, ci soffermiamo pigramente ad osservare le sculture e le ricche finiture dei templi, ed i bonzi che recitano i loro mantra ipnotici. Usciamo, cercando un po' di ombra per riprendere fiato e idratarci con qualche bibita cinese. Nel viale che corre accanto al tempio ci sono decine di negozi che vendono articoli militari, l'ideale se si deve prendere materiale da campeggio o da viaggio; ne approfitto per prendere un paio di bermuda tecnici color camouflage e una bussola professionale. Prendiamo quindi l'autobus 16 che ci scarica in Jin Long Plaza, un grande spiazzo in fondo al quale si erge imperiosa un'alta statua bianca di Mao; e poi sculture dorate di dragoni stilizzati, una tela futurista di grattacieli squadrati ed altri in costruzione, un ledwall con immagini di cinesi felici che comprano qualcosa. Rari gli occidentali in giro. 

Leshan

In pullman, direzione Leshan. Il cielo è grigio, il paesaggio per ora è piatto e monotono, la versione cinese della pianura Padana, cartelloni, quartieri residenziali per la piccola borghesia e gli impiegati statali. La voce monocorde della guida ci ha già massacrato le palle, sono tre quarti d'ora che smiagola il suo idioma irritante nel microfono. Luca ed Ale affrontano il viaggio con la narcolessia, per cui mi annoio in modo insopportabile. L'autista ci mette del suo andando a 60 all'ora sulla strada dritta e sgombra, per cui i 126 km diventano uno stillicidio. Dopo un po' fortunatamente arriviamo. Il compleso di Leshan è molto esteso; in pratica si tratta di un grosso parco attraversato da lunghi sentieri, alcuni dei quali anche un po' impegnativi, considerando anche il clima subtropicale. Il Buddha gigante scolpito nella roccia, o almeno il più famoso della zona, è una visione monumentale che appare all'improvviso, ne scorgiamo prima la testa (alta una quindicina di metri) e con una scaletta laterale arriviamo fino alla base fra i giganteschi piedi. La gente è tanta, per cui non è sempre facile spostarsi o trovare qualche posto un po' tranquillo. La passeggiata procede verso un tempietto con un porticato ed un laghetto con i pesci rossi, dove la guida si ferma a pigolare mezzora nozioni a noi incomprensibili, due giapponesi condividono il nostro sgomento, gli stessi turisti cinesi sono straziati dalla noia . Ci sdraiamo sulle panche e la voce della guida diventa una piacevole ninna nanna. Ci riprendiamo bruscamente, è ora di rimettersi in marcia. Dopo un lungo tragitto a piedi nella boscaglia raggiungiamo un complesso di grotte umide, all'interno delle quali sono scolpite divinità a più braccia sapientemente illuminate e demoni guardiani. All'uscita delle grotte, la visuale si spalanca sull'intera vallata sotto, in cui si scende con una ripida scalinata interrotta da chioschetti decorativi con dragoni e sculture varie. Lungo le catene passamano e sugli altarini sono attaccati migliaia di lucchetti, alcuni dei quali veramente usurati, direi che sono lì almeno da parecchi decenni. Alla base della collina un buddha dorato moderno, davanti al quale sculture bronzee di poppute ninfe in stile indiano danzano nell'acqua. Un alto obelisco bianco, sorretto da elefanti di marmo, sul quale sono scolpiti centinaia di piccoli buddha. Si cammina ancora un po' e, attraversato un ponte, si può vedere l'altro enorme buddha scolpito nella roccia, una figura imponente, sdraiata, che misura 175 metri; purtroppo sono visibili solo la testa ed i piedi, il resto è ricoperto dalla vegetazione. Alcuni turisti fanno delle foto ricordo con scimmiette vestite di seta dorata e pavoni legati sui trespoli a fianco di un'altalena decorata, noi non alimentiamo questo triste business e ci avviamo verso il pulmann che ci porterà all'appuntamento più atteso: il pranzo! Solito ristorante della zia, dividiamo il tavolo con i giapponesi ed un paio di brufolosi teenager cinesi molto cortesi. Il cibo si rivela una fetenzia: riso scotto, verdure innominabili, insalata bollita ed un pesce gatto che sa di fango. Si salvano solo delle polpette di carne (di quale animale preferiamo non scoprirlo). Ci alziamo vagamente disgustati ed ancora affamati. Fuori, noi tre veniamo incomprensibilmente dirottati su un camioncino scassato che, dopo aver imboccato contromano il viale d'uscita dell'autostrada, si ferma in corsia d'emergenza e ci lascia lì, dicendoci che di lì a poco sarebbe passato un altro pullman per Chengdu. Lo tratteniamo praticamente in ostaggio, e ci stupiamo quando dopo cinque minuti il bus arriva davvero e ci carica. Al ritorno abbiamo ulteriori conferme dell'incapacità dell'orientale alla guida nel traffico: sclacsonate inutili e continue, zig zag a continuo rischio di collisione, sorpassi in corsia d'emergenza. La sera, stanchi come dei minatori, la passiamo al baretto dell'ostello, facendo due chiacchiere col Beretta, un brianzolo che da una decina di mesi gira per l'Asia. Il bello di vivere in un Paese che offre poche prospettive è che puoi girare spensieratamente il mondo. Ci racconta di alcune zone della Birmania e di altri Paesi i cui è stato, ricambiamo con le nostre storie ed esperienze. Dopo una birretta ed un paio di mail, tutti a nanna. 

Panda Base

Gitarella al Panda Breeding Centre, 11 km a nord di Chengdu. Si tratta di un parco dedicato alla salvaguardia di panda e panda rossi (simili a dei procioni). Fortunatamente la giornata è piovosa, per cui gli animali si avventurano al di fuori delle zone d'ombra e possiamo vederli ciondolare pigramente e masticare il loro cibo preferito, foglie e germogli di bambù. Il panda è uno dei pochi animali che in Cina, fortunatamente, gode di rispetto e tutela, anche perchè viene usato spesso come dono diplomatico (recentemente ne sono stati regalati un paio a Taiwan per ingraziarsi i politici locali). Nella nursery vediamo anche dei cuccioli ed uno che deve essere appena stato partorito, infatti è ancora cieco e sembra un topolino senza pelo. Il piacevole giro dura un paio d'ore, e si conclude nel museo del parco che raccoglie materiale vario inerente ai panda.
In serata ci presentiamo dalla ragazza dell'agenzia per ritirare i permessi per il Tibet, che come temevamo esordisce con "I'm solly solly". Per un disguido non è arrivato, tutto slitta quindi di un giorno e si accollano loro le spese. La tipa si prodiga per placare la nostra ira funesta, ma capiamo che non dipende da loro e ci rassegniamo. Per smaltire la delusione, passiamo la serata al Jellyfish, localino occidentalizzante nella zona universitaria (Zidonglu Section); gente e Cuba Libre non male. 

Chengdu

Stamattina mi sveglio presto e mi faccio un giro da solo per il centro cittadino. Prima un po' di allenamento con gli anziani sulle macchine-taichi, poi vagabondaggio nei negozi di abbigliamento e di elettronica. Sulla strada del ritorno entro in un negozio di sculture; il gestore, un ragazzo poco più che ventenne, mi mostra le opere spiegandomele dettagliatamente una ad una, e nel mentre mi offre acqua calda. Lo vedo in apprensione mentre prendo in mano manufatti di estrema delicatezza. La maggior parte delle sculture sono in marmo bianco con fitte venature rosse, oggetti veramente degni di nota, ed i prezzi vanno dai 1000 ai 5000 yuan; quando gli faccio capire che sono fuori dalla mia portata lui sorride e mi dice che a lui interessa che io conosca meglio la sua cultura, e non c'è ipocrisia mentre lo dice. Mi spiega che i dragoni della tradizione cinese sono tutti benevoli, al contrario di quelli occidentali. Poi, sempre nel suo anglo-cinese, insiste per sapere la mia data di nascita e mi spiega tutte le caratteristiche del mio segno, il cavallo. Consulta un voluminoso librone finchè trova il momento in cui sono nato. I miei elementi sono l'oro e l'acqua, i miei colori sono bianco, dorato, nero e blu; i miei punti cardinali favoriti sono il nord e l'ovest ed il mio numero portafortuna è il 4. Mi spiega anche che, se volessi avere un segno portafortuna di marmo sulla scrivania, non dovrebbe essere un cavallo, ma un segno amico, ad esempio una capra (Ale è una capra, e più tardi si rallegra di essere un talismano vivente per me e Luca).
Nel pomeriggio visitiamo il quartiere tibetano, che sembra abbastanza posticcio pur conservando parecchi elementi interessanti: si riduce a qualche via affollata ricca di negozietti di artigianato (i prezzi, ovviamente, sono il quintuplo del normale per noi gaijin); i cinesi che passeggiano sono più incuriositi da noi che dalle tibetanate. Ci chiedono più volte di fare delle foto assieme a loro, e viviamo i nostri bei momenti di celebrità. 

verso Lhasa

Stamattina ci siamo svegliati all'alba per prendere l'aereo, che è partito con un'ora abbondante di ritardo. Ci lasciamo alle spalle Chengdu, l'anticamera del Tibet, con le sue contraddizioni fra il non lontano passato feudale e la modernità importata dai cinesi. Il pasto a bordo consiste in una vaschetta di riso liquefatto, pane burro e un brownie. L'aeroporto di Lhasa è veramente piccolo, in duecento metri siamo dall'aereo al parcheggio, dove ci attende Lodoe, la nostra guida tibetana. L'aria è tersa e rarefatta, montagne aguzze e brulle circondano la valle, la vegetazione è composta da sterpaglie. Lungo la strada, il territorio paludoso è il luogo in cui l'immenso Brahmaputra inizia a raccogliere le forze per la sua tortuosa discesa verso l'India. Con il furgoncino seguiamo la provinciale poco affollata di mezzi, qualche villaggio, case isolate su cui sventola più o meno spontaneamente la bandiera cinese. Gli altri colgono l'occasione del trasferimento per sonnecchiare un po', io invece sono avido di emozioni tibetane. 

Lhasa

Per un paio di giorni non ho scritto, c'è così poco tempo per fare tutto. La permanenza ad orologeria in Tibet concessa dai cinesi impedisce di cogliere serenamente tutti gli aspetti che la tranquilla realtà tibetana offre. Lhasa. Cinque lettere per descrivere un universo. La strada che la taglia in due, perentoriamente chiamata via Pechino, passa davanti al Potala, su cui svetta la bandiera cinese, nel caso qualcuno dimenticasse che il Tibet non è più indipendente. La parte più antica della città, che inaspettatamente conserva ancora forti le proprie radici e la propria identità, si raccoglie attorno al tempio Jokhang, in un dedalo di viette e stradine che mai mancano di riservare qualche sorpresa. In una di queste strade troviamo alloggio, un anonimo ostello gestito da cinesi che sembra una caserma, con due posti in camera e uno in camerata. Ha il pregio di essere posizionato bene fra l'arteria principale e il Barkhor.
I tibetani, fisicamente, sono abbastanza diversi dai cinesi, tanto che li si può facilmente distinguere; hanno infatti tratti più spigolosi, gote rosee, nasi più adunchi ed occhi affilati, mentre i cinesi in genere hanno tratti più dolci ed affusolati. La nostra guida ed interprete, Lodoe, è orgoglioso di essere tibetano, e ci racconta la sua storia. Da piccolo, è stato portato dal padre in Nepal per poter studiare l'inglese e non essere indottrinato dai cinesi. Sono espatriati passando attraverso le montagne come profughi, poichè ai tibetani tuttora non è concesso il passaporto. Dice che i tibetani aspettano il ritorno del Dalai Lama e l'appoggio internazionale per avere l'indipendenza, oppure che la Cina collassi su sè stessa come l'ex Unione Sovietica. Insomma, campa cavallo.. Lui stesso è scettico, capisce che la battaglia per il futuro del suo Paese si giocherà tutta sull'ostinata conservazione delle proprie tradizioni di fronte alla strabordante invasività economica e culturale della Cina. Naturalmente la questione tibetana meriterebbe un più ampio approfondimento di quanto sia possibile in un diario di viaggio dopo qualche giorno passato a Lhasa. La mia impressione è che, se i cinesi fossero furbi come spesso sono, capirebbe che conservare l'identità del Tibet conviene anche a loro, sia in termini di prestigio internazionale, ma anche in vista dell' indotto creato dal turismo, che qui ha potenzionalità straordinarie se viene comunque amministrato con lungimiranza, impedendo che Lhasa diventi una città con neon e palazzoni di calcestruzzo come mille altre città cinesi. I tibetani sono un popolo pacifico, come sempre la civile convivenza sarebbe l'ipotesi più auspicabile, ma è sempre difficile da realizzare in concreto. Lodoe sarebbe insegnante, ma la scuola in cui lavorava è stata distrutta da un'alluvione e lui campa facendo da guida e con altri lavoretti. Ha solo ventiquattro anni ma è una buona fonte di notizie e ci aiuta ad affrontare la labirintica capitale. Con lui, il primo giorno, assistiamo alle celebrazioni finali della festa dello yoghurt, una delle poche ancora concesse in cui i tibetani si ritrovano per festeggiare assieme. Le esibizioni canore e danzanti sono modeste, ma il vero spettacolo è il pubblico che assiste ai lati, ordinato e serio come se fosse a teatro, gli uomini con il cappello da rodeo, le donne nei lunghi abiti colorati. Poco lontano, una mostra mercato di bonsai, alcuni dei quali di rara bellezza, fra cui uno di bouganville ..vabbè. Il Potala ormai è quasi interamente accessibile ai fin troppi turisti, quasi tutti cinesi. Noi ci facciamo largo fra la folla con un po' di spavalderia, dicendo "Diplomatic!", mentre Lodoe si inoltra saltando la coda inaffrontabile all'ingresso. Le larghe scalinate per accedere alla parte superiore del tempio sono probabilmente fatte per essere risalite a cavallo; sotto il sole implacabile e con l'aria rarefatta necessitano di qualche pausa, indispensabile anche per ammirare il maestoso panorama e le rifiniture esterne della costruzione. All'interno, un dedalo costituito dagli antichi luoghi di ritrovo e preghiera dei monaci, fino alle stanze private del Dalai Lama. Il percorso è disseminato fittamente di sculture dei vari bodhisattva, troni, rotoli di preghiere, portalumi dorati in cui brucia eternamente burro di yak illuminando fiocamente il labirinto ormai affidato alle sole cure dei custodi. Non srotolano più le antiche preghiere in sanscrito gli antichi monaci, nè il giovane Dalai Lama osserva incuriosito il mondo dalle sue stanze agli ultimi piani. Il turismo, con il mio incolpevole contributo, ha fagocitato anche questo edificio (per ora senza infortuni, grazie anche alla protezione garantita da enti come l'Unesco). In fondo anche il Duomo di Milano è un tempio sacro, che però tutti i cittadini che ne hanno rispetto possono visitare senza problemi, perchè sono meraviglie costruite dall'uomo a cui tutti devono poter accedere. Il cuore pulsante della cultura tibetana è invece il Barkhor, il quartiere che circonda il tempio Jonkhang, che rimane il mio preferito. Attorno ad esso si consuma lo spettacolo della tumultuosa quotidianità tibetana, tra le ispirazioni religiose e le bancarelle fitte di metalli e tessuti, gli incensi e le magliette cinesi. I tibetani camminano tutti in senso orario rispetto al tempio, recitando i mantra cantilenanti o spulciando fra gli oggetti in vendita, alcuni fedeli gettandosi a terra facendo handboarding con delle tavolette di legno. Molti, soprattutto gli anziani, ruotano delle specie di scettri, detti anche mulini della preghiera, contenenti rotoli di antichi mantra che girando si diffondono in tutte le direzioni. Anche un occidentale annoiato potrebbe stare ore ad osservare il semplice fluire della gente senza annoiarsi, tale è la varietà di etnie e personaggi che da tutto il Paese convergono in queste strette vie. Abbiamo contato tre gruppi etnici principali, esclusi i cinesi: i cowboy, i treccia rossa e gli scappati di casa. Hanno tutti l'aria di soddisfatta gente semplice di montagna, con le gote rosse e i modi rustici. Di monaci in città se ne vedono pochi, anche per via dei recenti disordini in occasione delle olimpiadi di Pechino del 2008. La situazione ora appare tranquilla, a parte qualche cecchino sui palazzi nella piazza principali e soldati cinesi che a gruppetti di cinque pattugliano pigramente la città; perlopiù sono tutti ragazzini di leva con il fucile più grande di loro. La sbirranza semplice invece è affidata ai tibetani. La cucina più tradizionale si basa essenzialmente su un'unico animale: lo yak. Lo abbiamo assaggiato in ogni modo, nei tortelli, alla brace, con i funghi, ed è sempre squisito, ci ha permesso una pausa dai forti sapori cinesi. Chissà se il primo fast food cinese che già è stato aperto in centro farà cambiare anche le radicate abitudibni culinarie di questo fiero popolo. Di notevole in città visitiamo anche uno fra gli unici conventi in Tibet, dove le monache tuttora pregano e coltivano i loro medicamenti. L'artigianato è vario e ci sono molti "ricordini" da portare a casa, ma bisogna stare attenti alle molteplici imitazioni cinesi e alla furbizia dei mercanti. Prendo una maschera di Mahakala di legno dipinto, un coltello Khampa, campane a forma di ciotola da suonare ruotando un cilindro di legno, qualche maglietta e altro. Viaggiando zaino in spalla non si può prendere tutto, anche perchè gli oggetti che valgono non sono spesso per le mie tasche. Delle immagini che restano? L'immensa piazza di fronte al Potala, di notte, con solo noi tre e qualche altro che camminiamo nella luce gialla dei lampioni che si riflette sulla distesa di mattonelle; il quartiere della moschea lontano dal chiasso del Barkhor, la piazza centrale che dalla terrazza ci ricorda per qualche ragione Jemaa el Fna a Marrakech. Ma è già ora di partire, con il treno che affronterà il tragitto ferroviario più in alto del mondo.

Xining

Il treno da Lhasa attraversa panorami montagnosi brulli e poco ospitali. Ampie vallate, yak che pascolano, qualche ghiacciaio in lontananza, al crepuscolare l'atmosfera è lunare. Questa ferrovia è un vanto dei cinesi, sognata da Mao ebbe termine solo nel 2006. Nelle cabine sono presenti, e molti le usano, maschere di ossigeno, visto che buona parte dei 1150 km fino a Xining sono oltre i 4000 metri. Un signore si schiaffeggia, forse per reagire allo sforzo della pressione, un altro chiede l'intervento della solerte bigliettaia-infermiera. Il passo di Tanggula è a 5000 metri, ed infatti più o meno in quel punto mi sveglio di soprassalto sentendomi strano, niente di insopportabile, a parte un po' di sangue dal naso. Galleggiamo nei corridoi dalla luce giallastra, la motrice diesel mastica chilometri di permafrost, fuori dai finestrini la notte tibetana è un cielo nero che svela deserti rossastri all'alba, ed infine i terrazzamenti coltivati dopo Golmund. Arriviamo a Xining verso le 16:00, dopo tante ore di treno. La città è circondata da montagne con un certo fascino, ed è tagliata dal Fiume Giallo. Alla biglietteria della stazione cerchiamo già i biglietti per Pechino, ma non serve fare la coda: dal tabellone gli implacabili ideogrammi ci dicono che per almeno dieci giorni non c'è nemmeno un hard seat. Facciamo la conoscenza di Xiao, un intraprendente personaggio da scalo ferroviario, che si offre di "aiutarci". Parla inlglese, e suo "cugino" ha un'agenzia di viaggi; visto che si trova più o meno in centro decidiamo che tentar non nuoce. Ormai l'unica soluzione sembra raggiungere Pechino con un volo interno, o provare intanto a raggiungere Xian in qualsiasi modo. Dopo una votazione democratica ci accordiamo per il volo a Pechino, e lo realizziamo seduta stante ad un prezzo ragionevole. Xiao naturalmente può anche consigliarci una posto in cui prendere una camera, cioè un hotel nel quartiere musulmano. Andiamo a vederlo con riserva, ma visto che siamo distrutti dal viaggio e vogliamo solo fare una doccia e appoggiare lo zaino, prendiamo una doppia adattandola per tre, anche se la pulizia non è il fiore all'occhiello dell'albergo. ("It's clean?", avevamo chiesto prima che Xiao ci portasse all' hotel; e lui, "very clean!"). Le donne all'ingresso non sembrano capire neanche la più semplice delle parole che diciamo loro, chiedere un cuscino e degli asciugamani in più diventa un corale esercizio di mimica. Usciamo per cercare da mangiare nei dintorni, il meglio che troviamo sono hamburger cinesi da Dico's; al ritorno, sul marciapiede, seguiamo un'inquietante scia di gocce di sangue per trecento metri, un macabro sentiero che si interrompe bruscamente ad un incrocio e sulla cui origine ognuno ha la sua ipotesi. Ci si accorge di avere a che fare con una Cina imparentata con il Medio Oriente, i tratti sono più scuri e meno a mandorla, molte donne hanno il velo; e non è difficile notare quanto l'influenza islamica tenda a mitigare gli eccessi presenti in altre metropoli cinesi. Qui convivono e si intrecciano da millenni comunità tibetane, musulmane ed Han, e la città è un laboratorio di reciproca tolleranza e cultura condivisa. Alla mattina, visitiamo la moschea, ci arriviamo passeggiandoci e assaggiando i dolci delle pasticcerie arabe lungo la strada. Nel cortile, sotto i minareti, anziani che chiacchierano mentre leggono il giornale, sullo sfondo un arco ornamentale a pagoda ed in lontananza gru che innalzano alti palazzi. Non possiamo accedere alle zone di preghiera, ci accontentiamo di fare due passi nel cortile, cogliendo dialoghi sussurrati e scorci inattesi. Nel pomeriggio, ci facciamo due ore e mezza di treno e siamo a Lanzhou, sulla carta la città più inquinata del pianeta, non notiamo grosse differenze rispetto ad altre; sembra una copia di Xining ingrandita ed industrialmente ottusa. 

Pechino

Arriviamo che è buio e piove; fuori dalla stazione il primo tassinaro ci chiede una cifra astronomica, lo mandiamo affa e ci allontaniamo per cercarne uno più onesto. Chiedere di accendere il tassametro è come domandare la fattura ad un dentista. Contrattiamo un prezzo ragionevole e ci facciamo portare in Hengshan Road, una strada vivace di locali e boutique artistiche, che attraversa gli hutong più genuini e scalcinati, a qualche centinaio di metri dalla Città Proibita. Non abbiamo prenotato, i primi due o tre posti in cui chiediamo non hanno letti liberi; noi procediamo inflessibili, zaino in spalla e sudore a fiotti, fra la gente che passeggia spensierata. Manufatti moderni, giocattoli cinesi antichi, magliette con stampe originali, abiti, borse, la via è piacevole e vale la pena cercare nelle traverse laterali un albergo senza pretese. Lo troviamo infatti in un hutong meno illuminato dalla ribalta, inoltre siamo ad un piano alto ed abbiamo una buona visuale sui cortili che ci circondano e Pechino by night, che vista così non sembra granchè. Il ragazzo al banco è sveglio, ci dà una tripla con bagno ad un buon prezzo visto che gliela chiediamo già per tre giorni.
Ritemprati dal meritato riposo, di buon ora ci incamminiamo verso la Città Proibita. Prima di entrare decidiamo di fare un pranzetto volante, in una bettola a qualche centinaio di metri dall'ingresso nord. Ordiniamo chiken noodles e due terribili carpe ricoperte di peperoncini piccanti; Luca tenta di finire il famigerato pesce ma deve desistere all'insorgere delle prime allucinazioni. In parte rinvigoriti dal pasto, affrontiamo la calca ed entriamo nel maestoso complesso, nella dimora dell'imperatore. E' un' estesa cittadella fortificata attorniata da un largo fossato, in cui predominano i rossi delle pareti e i gialli ocra dei tetti di tegole. Tentiamo di orientarci senza la piantina, lasciandoci guidare dalla curiosità o solo sfuggendo i raggruppamenti di folla. C'è da perdersi nel susseguirsi di vasti cortili e costruzioni laterali, grosse vasche di bronzo per le abluzioni, metallo fuso in aironi e draghi, piante secolari avvinghiate al selciato, le decorazioni imperiali che si stagliano contro la capitale moderna. Raggiungere la porta sud è una piacevole impresa. Dopo un ultimo filare di alberi e venditori ambulanti, varchiamo la soglia e ci troviamo sulla sconfinata piazza Tienanmen; sopra di noi, il famoso ritratto di Mao che osserva sereno il traffico e la piazza, si sgomita per fotografarcisi sotto, la guardia annoiata fissa impassibile il nulla. Il caldo è ora insopportabile, c'è un chioschetto che vende esclusivamente bibite calde (ci chiediamo quale sia l'iter burocratico o gli agganci per aprire l'unico chiosco in piazza Tienanmen, e poi non avere un frigo, c'è qualcosa di inspiegabile in tutto ciò). Gli edifici che sorgono in mezzo alla distesa la spezzano, rendendola impossibile da cogliere nel suo insieme. Ciononostante la attraversiamo per metà, e tagliamo a ovest verso "l'occhio", il Teatro nazionale dell'Opera, una imponente bolla di vetro e acciaio che emerge da un lago artificiale, con un futuristico ingresso subacqueo. Sulle pareti della fragile cupola, gli operai che lavano le finestre sembrano insetti intrappolati su una goccia di resina. Sulla strada del ritorno, Luca va a vedere il bizzarro edificio della televisione nazionale, mentre io ed Ale torniamo verso la tranquilla Hengshan, ma uno sbaglio di interpretazione della mappa ci fa vagare per un po' fra gli hutong senza nome, scorci di cortili stretti e di vecchi in canottiera e ciabatte, tricicli, ventagli e cani di piccola taglia, quasi sempre pechinesi o volpini. Una signora anziana canta in bicicletta, da un antro oscuro fradicio d'umidità arrivano voci concitate e profumo di soffritto. Luca si era ripromesso di scherzare a raccogliere ortiche per le strade di Pechino, in onore a Battiato, ma maggio è passato da mesi e non ne abbiamo trovate. Il giorno seguente, mentre gli altri continuano il tour classico andando a vedere la Grande Muraglia e le tombe Ming, io decido di proseguire dal lato meridionale di piazza Tienanmen fino al Tempio del Cielo. Il tragitto inizia da un largo viale pedonale attraversato da una monorotaia, ai lati boutiques dall'aria squadrata e pretenziosa. Un'arteria commerciale senz'anima che si perde in negozi sempre più anonimi, fino ad incrociare una trafficato stradone ad otto corsie. La camminata si prospetta non facile, le distanze a piedi iniziano a farsi sentire, soprattutto per l'afa implacabile. Cerco la direzione ad occhio, e dopo un po' mi imbatto finalmente nella cinta muraria del Tempio del Cielo. Si paga un ragionevole ingresso, e il parco all'interno mi consente una confortante pausa per rinfrescarmi dalla calura pechinese. Il tempo appena di asciugarmi, e vengo invitato da dei locali a giocare con un fresbee morbido che si prende con la testa e a palleggiare con una specie di volano: lo fanno tutti, bambini ed anziani compresi. Mi piacciono i vecchi cinesi, amano tenersi allenati e non si sentono ridicoli mentre fanno sport e si divertono. Il tempio in sè consiste in un insieme di edifici taoisti, dai simbolici tetti blu, in cui l'imperatore nel solstizio d'inverno veniva, seguito dalla corte, a pregare per il raccolto e per altri rituali astrologici. Basta sedersi su una gradinata all'ombra e stare ad osservare, le volte spioventi che osservano i secoli passare, due ragazzine giocano con il cellulare come ovunque altrove nel mondo, i padri di famiglia immortalano mogli e figlioletti con ogni scorcio possibile. Turisti frettolosi come noi, che portano a casa qualche ricordo e gigabyte di foto digitali. Dopo il Tempio proseguo verso il Mercato delle Perle, che a parte il nome altisonante, si rivela essere un palazzone con la merce suddivisa per piano, dove i singoli negozianti vendono al dettaglio elettronoca, abbigliamento, paccottiglie vari e perle.
Ora siamo nella stazione dei pullman ad attendere il bus con cuccette che ci porterà a Shangai. 

Shangai

Il pulmann sembrava l'astronave di Avatar. Dopo 17 ore di loculi criogenici, con l'immancabile grassone che russava come un grizzly, siamo stati scaraventati nell'afa terrificante dell'autostazione di Shangai. La veloce metro ci porta nel nostro ostello nella Concessione Francese, il "Le Tour Traveler's Rest Youth Hostel" al 319 di Jaouzhou Rd, carino e pulito, in fondo ad un caratteristico lilòng. Dopo un pasto ipercalorico vicino alla metro, ci concediamo un pisolino per riprendere le forze, per poi ributtarci nella follia collettiva dell'iperattivo Bund. Con la metro scendiamo a People Square e percorriamo Nanjing Rd., un'affollata via pedonale fiammeggiante di neon, grattacieli, trenini per turisti, venditori di orologi, panorami verticali di ledwall. Beviamo una Xingtao per rinfrescarci, pur essendo sera la temperatura non scende sotto i 40 gradi, e l'umidità sfiora il massimo. Arriviamo fino allo spiazzo panoramico sul fiume Huangpu , da cui si vede il Pudong in tutta la sua magnificenza, grattacieli bizzarri davanti a cui passano battelli alti come palazzi di neon galleggianti. La calca in alcuni punti è opprimente, ci abbiamo fatto un po' il callo, riprendiamo la metro e usciamo dall'altra parte del fiume, nel cuore della Manhattan di Shangai, i palazzi illuminati ci sovrastano per centinaia di metri. Dopo le foto di rito cerchiamo di salire sul Financial Centre, ma si pagano 150 yuan solo per accedere alla piattaforma di osservazione, dopo una coda interminabile. Optiamo per la più attraente Jin Mao Tower, che all'87esimo piano ospita il Cloud Bar. Per arrivarci bisogna cambiare tre ascensori veloci come razzi, indirizzati da cortesi inservienti al piano. La visione di tutta la città dall'alto e l'atmosfera rilassata, valgono i 90 yuan del cocktail, tra l'altro un long island fatto a regola d'arte. La cameriera, impeccabile e cortese, dietro nostra richiesta su quale sia la zona della città in cui trovare un po' di vita notturna, ci indica Heng Shan Rd. Il taxi ci porta per 30 yuan, e fra locali e discoteche varie facciamo mattina. Qui senz'altro ci avviciniamo a standard occidentali, anche per quanto riguarda i prezzi; ma ne vale la pena, dopo tante settimane di ritiro spirituale nelle province più remote. Numerosi i poliziotti e le guardie private che vegliano sui ragazzotti brilli e le amichette che ballano. 

Shangai - Expo 2010

La visita all'Expo di Shangai è un'esperienza che vale tutti i 160 yuan dell'ingresso. La nuova Cina mostra il suo volto più efficiente e protagonista del futuro, con una struttura imponente e ben organizzata. La calca, soprattutto nel padiglione cinese, è ovviamente onnipresente, frequenti navette si spostano rapide fra un padiglione e l'altro, scorrono i continenti e le costruzioni bizzarre delle singole nazioni. Dopo un salto nello spazio neozelandese, facciamo uno speziato pasto nel padiglione indonesiano e andiamo verso la zona europea. Per accedere al cubo di vetro-cemento italiano c'è una coda mostruosa. Dopo dieci minuti di spintoni e afrori sudaticci, un cuoco dello stand, fuori a fumarsi una sigaretta, ci fa: "Ma che state affà, la fila coi cinesi?" Saltata la fila, entriamo con lui e dobbiamo ammettere che dentro è molto meglio di quanto appaia fuori. Una parete con un'intera orchestra verticale, su un'altra vestiti d'alta moda. In una stanza, un ulivo centenario sembra emergere dal pavimento spaccando i tasselli del parquet. Per il resto, è un po' un susseguirsi di luoghi comuni (pasta, vino, Ferrari), più una vergognosa esposizione di plasticacce di Alessi & Co. Una scala mobile entra in una sezione di cartongesso della cupola del Duomo di Firenze. In cima, l'aroma del ristorante ci provoca una struggente nostalgia di casa, dopo settimane di riso, porcherie piccanti e hamburger per tamponare lo stomaco. Dopo quest'ondata di emozioni italiche, ci dirigiamo allo spettacolare riccio inglese, di cui ogni spina di resina trasparente custodisce in punta il seme di una pianta diversa, e sono migliaia, luminosi fili di vita. Memori della recente esperienza di coda, ci dirigiamo verso l'ingresso per i britannici, prendo da parte il tipo e gli dico "scusa, non sono inglese, ma ti pare che posso fare una coda simile? Lui concorda e impietosito ci fa passare. Dopo aver ammirato e plurifotografato la foresta di semi, usciamo a riposarci sulla moquette grigia che circonda l'edificio, dove veniamo simpaticamente assaliti da due standiste scatenate ed oversize che, armate di fischietto, ci fanno ballare con loro ecc. I locali ci osservano un po' allibiti. La giornata volge al tramonto, ci uniamo alla fiumana umana che si dirige alla metro per tornare a casa. Quando usciamo alla nostra fermata, Jing An Temple, una pioggia torrenziale ci costringe a correre in ostello e rimanerci. 

Hong Kong

Aereo per Shenzen, città appena oltreconfine per accedere a HK. Raggiungiamo comodamente il terminal 2 del Hong Piao Airport con la linea 2 della metro, la nostra. L'aereo ora sta partendo senza ritardo. Ci stacchiamo da terra, l'inclinazione innaturale del decollo non mi vede tra i suoi fan, ostentare sicurezza anche di fronte alle turbolenze più squassanti. Locuzioni come "cedimento strutturale" mi tengono impegnato durante il volo, come mantra negativi. Arriviamo fino a HK senza problemi, Simon ci chiede come sia andato il viaggio, ci riserva due monoloculi dei suoi dove sistemiamo i bagagli per il viaggio finale verso l'Italia. (Quelli che, in viaggio, stanno in hotel a leggere sulla Lonely quello che potrebbero fare se non stessero leggendo la Lonely. Questo popolo, perlopiù, segue lo stesso tragitto, ha poco da raccontarsi perchè han fatto tutti le stesse cose.) In serata saliamo fino al The Peak con il tram che si inerpica lungo un cavo dalla pendenza impressionante; la vista da sopra è spettacolare, ci concediamo una birretta e delle polpette di granchio (una porzione in tre, visto che i liquidi iniziano a scarseggiare). Il ritorno, per tale motivo, ce lo facciamo con una lunga passeggiata nel buio dei boschetti che circondano la collina, fra sentieri di alberi attraverso le cui fronde si stagliano le torri luminose e l'immensa baia. Arriviamo alla base sudati ma soddisfatti, per poi buttarci a capofitto nell'ultima folle notte in questa elettrizzante megalopoli orientale.

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