Hong Kong
L'aeroporto è una landa di tapis-roulant e terminal, e non è
subito facile orientarsi; dopo la trafila dei visti, chiedo a due
solerti hostess di terra un po' di indicazioni, e loro sono liete di
darmele. Fuori dall'aeroporto, sulla destra c'è una discesa, in fondo
alla quale c'è la biglietteria degli autobus. Non ci si può fermare a
fumare una sigaretta neppure qua all'aperto. Prendo l'autobus A21 (per
33 HKD). Dopo un'oretta e mezzo di autobus a due piani alla velocità di
un Ciao (colline inaspettatamente verdi e disabitate, la stupenda baia
vista dal ponte, palazzoni popolari di 80 piani) imbocchiamo finalmente
Nathan Road, una delle arterie pulsanti di neon e carne sudata, negozi
di stralusso e merdivendoli. Non è facile decifrare sui cartelli il nome
della fermata; scendo allo stop 14 (Middle Road), anche grazie
all'anziano autista che a gesti mi conferma che è la fermata giusta.
Adesso sono praticamente sulla punta di Kowloon, Hong Kong si staglia
imponente di fronte. Nathan Road è un formicaio cyberpunk, ricche cinesi
slanciate, venditori arabi ed indiani che bisbigliano, affaristi
occidentali paffuti e rosei, straccioni e punkabbestia vari. Grattacieli
su cui atterrano elicotteri, vetrine immense. Sembra la Quinta Avenue a
NY, ma in salsa di soia. Con lo zainone in spalla sono una preda fin
troppo evidente per commerci vari; il tempo di scendere dall'autobus e
già cercano di vendermi massaggi, orologi, fumo, più altre mercanzie
varie. La temperatura sarà sui 40 gradi, e l'umidità deve essere
affrontata con le pinne. Mi addentro nella ChungKing Mansion, una casbah
verticale di tecnologie, ciarpame, ristoranti indiani e affari illeciti
vari. Africani con le loro lunghe tuniche e i grossi pacchi, il
complesso brulica di una variegata fauna umana, sembra un'immagine dei
volantini dei Testimoni di Geova, in cui tutte le razze coesistono
felici (più o meno). Blocco B, quinto piano, mi accoglie Simon della
GuengDong Guesthouse. Uno come Simon se non lo vedi non puoi capire. Sa
già chi sono, che domani arrivano gli altri, mi fa la gentilezza di
darmi una camera più larga perchè sono più alto di quanto pensasse
(Ooooh! Vely tal italian!).
Poi mi spiega ogni singolo pulsante della stanza-loculo (sembra
quella di Pozzetto nel film, tavolino-Tac, televisore-Tac). Vorrei solo
riprendermi un attimo, per cui lo ringrazio dicendogli che so già
tutto. Gli do un totale di 35 euro in HKD (finita la pacchia filippina) e
mi consegna la chiave elettronica ("Se tu avele bisogno busale folte
Bum Bum Bum sulla mia polta"). Dopo una doccia rigenerante, mi butto nel
flusso multietnico di Nathan Road alla ricerca di cibo e crediti
telefonici. Anche il tenore dell'oggettistica è notevole, di cose che
ingolosiscono ce ne sono parecchie. Intanto mi mangio un Whooper da BK
(tanto il cibo tipico di Hong Kong è il fusion assoluto) e poi, dietro
consiglio del vecchio Simon, prendo la metro in direzione Central, dove
scendo. Imbocco Pedder Street in direzione sbagliata, e dopo diversi
futuristici cavalcavia pedonali mi ritrovo vicino al porto, con una
vista mozzafiato su Kowloon. Torno sui miei passi verso Lan Kwai Fong,
la zona dove di sera pascolano i fighetti della città; mi accaparro uno
sgabello al George Pub e mi scolo lentamente la mia mezza litrata di
Hoegarden. Si capisce che fra queste vie la vita non smette mai di
pulsare, i giovani ricchi (soprattutto bianchi, ops caucasici) hanno a
disposizione il loro recinto dorato in cui scorrazzare; mi torna in
mente Città del Capo, anche se con le ovvie differenze. Prima di
ordinare un'altra birra e perdere i sensi, mi dirigo verso la metro che
sta per chiudere; il tunnel passa sotto il mare e mi riporta a Kowloon.
Sotto la Chungking Mansion, un ragazzo afghano di nome Khan vorrebbe
vendermi del Manali nero grondante olio. Si conclude così il mio 32°
compleanno. -"I close my eyes to understand"
-
Ieri ho recuperato gli altri due in ostello e, sebbene fossero
distrutti, siamo comunque andati a bere un paio di birre al "The Keg" in
Central. Ingurgitato il luppolo fermentato, abbiamo preso un taxi (60
HKD) che ci ha portati direttamente a The Peak, la cima della collina di
Hong Kong, la proprietà immobiliare più cara al mondo. E il panorama
spettacolare ci fa presto capire il perchè; la vista spazia sull'intera
baia, uno scenario di grattacieli a perdita d'occhio che trafiggono le
isole. Miliardi di luci sospese che si specchiano sui lembi neri del
mare. Ne approfittiamo per bere qualcosa al Bubba Gump, un ristorante a
tema sul film Forrest Gump, con reperti di scena e curato nei minimi
particolari, con relativo merchandising di magliette ed oggettistica.
Per tornare verso Kowloon abbiamo preso il tram panoramico (25 HKD), una
funicolare con pendenze vertiginose che scende tutto il crinale della
collina, sfiorando quasi i grattacieli che attraversa. Con l'ultima
corsa della metro, siamo tornati in ostello dove abbiamo conosciuto un
po' di gente e ci siamo aggregati per un mini-party in camera mia. Sono
tre ragazze e un ragazzo sino-americani, cioè cinesi che vivono a San
Francisco, a cui il governo cinese ha offerto una sorta di
riavvicinamento culturale, dando loro la possibilità di vivere un mese
in Cina. Ci beviamo del tè con relativo rituale, e poi Tsingtao, rum
filippino e Manali. Essendo stati anche noi a Cisco (Luca addirittura
per sei mesi) abbiamo parecchi argomenti di discussione; dopo un po'
usciamo per prendere una boccata d'aria. Ci siamo avventurati verso il
porto per una passeggita sullo Stars Walk, il lungomare in stile
hollywoodiano con le impronte delle stelle del cinema cinese. C'è anche
una grande statua dorata di Bruce Lee. Sebbene la città sia un
formicaio, qui è abbastanza deserto, un'atmosfera insolitamente ovattata
rende ancora più irreale uno scenario già onirico. Hong Kong si
riflette nelle sue acque come Narciso, scattiamo una marea di foto in
lunga esposizione, finchè siamo stanchi ed andiamo a letto.
Risveglio tranquillo, impacchettamento bagagli e via, direzione
stazione di Hung Hom per fare il biglietto. Da qui, di nuovo in metro
fino a Lu Wo, per passare il confine a Shenzen ed entrare finalmente in
Cina. Veloci formalità, solito modulo e check delle borse; dopo un paio
di tentativi falliti, riusciamo finalmente a prelevare mazzette di Yuan
ed eccoci qua, in attesa che il nostro T38 ci porti a Guilin (arrivo
previsto domattina alle 7:00).Speriamo che il resto della Cina sia più
economico di Hong Kong, lì è difficile spendere meno di un centinaio di
euro al giorno; inoltre il biglietto per Guilin (con cuccette di prima
classe in mini-stanze da due con bagno) ci è costato una novantina di
euro. Impareremo presto che per viaggiare in treno, è meglio acquistarli
un po' prima per evitare di dover ripiegare sulla prima classe, o
peggio sulla quarta.
Guilin
Arriviamo all'alba nella triste periferia cementificata di
Guilin. Intrallazzoni, tassinari, in centro qualche negozietto
interessante; in 10 minuti siamo al Backpackers Hostel (100 yuan a
notte). Ci danno una tripla essenziale con bagno. Nell'ostello stesso
noleggiamo tre bici e ci lanciamo alla conquista della città. La prima
tappa consiste nelle due pagode, del Sole e della Luna, notevoli solo
perchè una delle due è la pagoda in rame più alta della Cina (o
dell'Asia?Mah..) e per il tunnel subacqueo che le collega. In, cima,
mentre ci rilassiamo guardando le curiose formazioni rocciose che
circondano la città da ogni lato, veniamo avvicinati da un gruppo di
mamme con figlie, ci chiedono se vogliamo posare con loro per delle
foto, e ne approfittano per scambiare qualche semplice frase in inglese.
Poi ci inerpichiamo a piedi sul Picco della Bellezza Solitaria, una
specie di enorme monolito dentro la città, in cima al quale ci sono un
paio di punti panoramici notevoli. La salita è resa straziante da un
caldo umido avvolgente, tanto che a metà del percorso sono istallati dei
ventilatori per asciugarsi vestiti madidi e fronti perlate di sudore.
In cima ci rilassiamo osservando la città a 360 gradi. Dopo un pranzo
pomeridiano in una ludreria aldilà del fiume, ci riposiamo un po' in
ostello, mandiamo un paio di mail, nel salone coppiette di turisti
zaino-lonely su ogni divanetto. Dopo una cena piccantissima (abbiamo
decretato che per mangiare nel sud della Cina è necessaria una fascia
frontale parasudore tipo Mc Enroe), andiamo al 100°, una specie di
discoteca (si riconoscono dal neon KTV all'ingresso, che vorrebbe dire
karaoke). Sembra di essere proiettati venti anni addietro: le prime
innocenti trasgressioni, qualcuno balla, la cubista è più vestita di una
normale quattordicenne milanese. Addirittura delle guardie con elmetto
(tipo antinfortunistica, non si capisce a cosa dovrebbe servire)
controllano il regolare svolgersi della serata. Un gruppo di ragazzi del
tavolo di fianco tenta di stabilire un ponte, ci offrono sigarette e
shot semi-alcolici, ma il fatto che ignorino l'inglese, e ovviamente noi
il cinese, ci preclude qualsiasi possibilità di comunicare.
LongSheng Terraces
Stamattina presto siamo partiti da Guilin, alla volta delle
Terrazze di LongSheng (o altrimenti dette "la schiena del drago"). Un
paio d'ore di autobus (di cui l'ultimo tratto su mini pulmino, visto che
la strada si restringe e si inerpica su tornanti da brivido) ed
arriviamo in questo paesino isolato. Ha un aspetto insolito, le case
sembrano baite svizzere addobbate con le lanterne rosse. Il paese si
snoda tra i terrazzamenti di riso, ai lati della strada qualche
venditore offre le sue mercanzie; interessanti diversi tessuti e delle
"fette" di marmo che hanno venature identiche a quelle della carne,
tanto che sono tagliate come bistecche e braciole, e solo da vicino ci
si accorge che è pietra. Inoltre vendono miele a blocchetti, semplici
pezzi di favo squadrati come sapone. Le donne del luogo si acconciano i
lunghissimi capelli neri in turbanti di fogge diverse, a seconda che
siano nubili, sposate senza figli o con prole. L'etnia tende al
laotiano-birmano. Degli uomini del luogo trasportano su delle portantine
di legno i turisti più svogliati, visto che la salita verso il
villaggio e le terrazze è blandamente impegnativa; il prezzo del
passaggio è di 2 yuan per chilo trasportato. Fra noi nasce una
discussione su quanto sia etico un lavoro così, se non sia umiliante; io
trovo che sia un lavoro come un altro, che anzi fa guadagnare ai
portatori parecchio di più di chi si spezza la schiena nei campi di
riso. Inoltre svolgono un servizio anche per i disabili, visto che il
posto è un'unica grossa barriera architettonica, e così tutti possono
raggiungere agevolmente la cima. La vista dall'apice, su cui sventolano
tre bandiere cinesi, è notevole, a patto che non siate vecchi amici
dell'Asia; altrimenti, è solo una bella valle terrazzata a riso. Ce la
godiamo mangiando una fetta d'anguria.
Col pulmino raggiungiamo un altro villaggio, dove le donne del
posto inscenano uno spettacolo con i loro canti, i loro arcolai e gli
altri strumenti quotidiani che usano. Dopo, mi offro volontario per una
finta cerimonia di matrimonio con una giovane del luogo, e ne approfitto
per scattare qualche foto nel "backstage" dove le donne mi vestono con
qualche indumento tipico e mi spiegano il rituale. Sono praticamente
obbligato ad acquistare un anellino (o qualche bigiotteria che non
ricordo) da donare alla "sposa", ma il prezzo è esiguo e il tutto è
molto divertente. La ragazza che scelgo mi arriva praticamente alle
costole. Balli, canti, prove di virilità (come pestare farina di riso in
un grosso mortaio o correre con la moglie in spalla ecc), insomma il
pomeriggio scorre. Il presentatore mi chiede anche di cantare e mi
ricorda l'obbligo di passare la notte con la sposa, gli rispondo con un
po' di imbarazzo che ci penserò. Dopo, passeggiamo un po' lungo il
fiume, attraversato da un ponte di catene su cui turisti e vecchie
oscillano come navi in tempesta. Torniamo a Guilin, dove ceniamo, la
cameriera parla inglese e ci racconta un po' di ciò che pensa, che sogna
ecc. Dice che vorrebbe girare il mondo, che la Cina le va stretta ecc.
Lavora lì da un paio di giorni, le ordiniamo un altro paio di birre per
non far sembrare che stia perdendo tempo con noi. Dopo un po' la
salutiamo, andiamo a ballare al Max , che è praticamente un copia ed
incolla del locale di ieri.
Yangshuo
Oggi, dopo lo sbattimento in stazione a prendere il biglietto
per Kunming, ci siamo imbarcati su una bamboo boat alla volta di
Yangshuo. Si tratta di imbarcazioni lunghe da una decina di posti con
un semplice scafo di bambù (o di tubi di plastica) e un motore.
Condividiamo il viaggio con tre spagnoli molto allegri, la crociera sul
fiume Li è godibilissima ed il panorama di picchi aguzzi e ammantati di
verde a perdita d'occhio è indimenticabile; dei martin pescatore si
tuffano nell'acqua vicino alle rocce. Non sono facile agli entusiasmi
ma le due ore sul fiume sono davvero piacevoli. Scesi dalle
imbarcazioni, ci pigiamo in un furgoncino con gli spagnoli e delle
ragazze cinesi, percorriamo polverose strade di campagna che corrono
parallele al fiume; sugli alberi strani frutti che sembrano enormi pere.
Siamo contenti di avere incluso nell'itinerario anche una tratta via
terra, il panorama bucolico sembra una felice cartolina maoista. Dopo
un'oretta di viaggio raggiungiamo finalmente Yangshuo; sembra
decisamente a misura d'uomo, lungo il fiume bancarelle e anziani
pescatori con i cormorani. Il viale centrale del paese è un susseguirsi
di negozietti con dell'artigianato interessante. Non dobbiamo camminare
molto per trovare l'hotel che fa al caso nostro: il White Lion, proprio
in centro alla parte antica di Yangshuo. Paghiamo 180 yuan la tripla,
che è pulita e bene arredata, e con un balconcino che si affaccia sul
via vai pedonale sottostante. Un paio di giorni sono sufficienti per
godersi i dintorni e rimettersi in forze, e ripartire alla volta di
Guilin.
verso Kunming
La pace di Yangshuo è già un ricordo. Siamo nell'affollata
stazione di Guilin in attesa del treno delle 16:56 per Kunming. Fuori
dalla stazione qualche storpio e un lebbroso. Riusciamo a rimediare solo
un biglietto di quarta classe (hard seat) in mezzo ad una fauna umana
che è tutto un programma. Un vecchio si ostina a parlare con noi in
cinese (scambiare quattro chiacchiere in lingue che non sai).I sedili
sono studiati per essere scomodi qualunque posizione si assuma, e noi
abbiamo di fronte un viaggio di una ventina d'ore. Il capovagone mi
offre sottobanco un lettino in seconda, per 120 yuan, ma non mi va di
abbandonare gli altri lasciandoli al loro destino. Cerchiamo di non
demoralizzarci; quando cala il buio, la gente si contorce e si infila in
ogni interstizio per cercare di dormire un po', ma è una tortura, teste
ciondolanti, il solito ciccione che russa come un grizzly, mugugni e
rantoli vari. Ci giriamo senza pace come cani rognosi. Manca solo la
famosa vecchia con la rana. Il top lo raggiungiamo quando il vecchio
(denominato Danny the Dog) davanti ad Ale e Luca si alza, si gira
appoggiandosi con le braccia al sedile, e dopo cinque minuti si lascia
andare in una rumorosa flatulenza nell'indifferenza generale. Noi
scoppiamo a ridere e ci rifugiamo nel giunto fra i vagoni a prendere un
po' d'aria. Decido di avere perso la dignità da almeno un'oretta, non mi
riesco a sistemare in nessun modo per più di tre minuti, per cui prendo
il mio tappeto turco e lo butto in terra sotto il quadro elettrico del
vagone, dove riesco a ricavarmi un metro quadro in posizione fetale.
Funziona, e per un paio d'ore riesco anche a dormire, finchè il
capovagone mi fa spostare perchè deve armeggiare con levette e bottoni
luminosi. Il panorama all'alba (dovremmo trovarci nei dintorni di
Weishe) è spettacolare. Valli con laghi e appezzamenti coltivati
disposti in modo bizzarro. Campi di fiori arancioni, colline di
girasoli, riso e mais. Su una montagna bellissima sono seminascoste qua e
là delle tombe bianche rivolte verso il sole che nasce. L'armonia del
panorama rende meno amare scomodità e scaccolamenti vari.
Ogni volta che mi sveglio dal torpore vedo gente diversa, o
posizionata diversamente; alle stazioni sembra che ne scendano 10 e ne
salgano 50. Ora saranno le 9:00 e siamo dei ragni, non vediamo l'ora di
arrivare a Kunming. Si intensifica il fenomeno degli occhi sgranati
rivolti verso di noi: non si capacitano di occidentali in quarta classe.
L'arrivo nella stazione di Kunming è uno scontro con le ottuse
formalità cinesi. Immaginate 3000 cinesi che scendono dopo 20 ore di
treno, e vogliono fuggire a lavarsi e ad appoggiare le galline. L'astuto
funzionario ferroviario cinese, invece, sistema un tornello in cui
convogliare la folla per strappare il biglietto (tra l'atro già datato e
timbrato). Il risultato è una coda oceanica. Superato questo ostacolo
ci tocca l'ultimo supplizio: la coda per fare il prossimo biglietto. In
fila davanti a noi una coppietta di ragazzi, ci facciamo scivere su un
foglietto data e destinazione; inoltre sul tabellone in ideogrammi e con
schermata da 5 secondi, individuiamo il treno esatto. Non basta. Quando
è il nostro turno, consegniamo il "pizzino" alla bigliettaia, una
sciura occhialuta sulla quarantina. Lei guarda il biglietto, poi ci
guarda come se le avessimo chiesto una datazione, precisa al giorno, di
un lembo della Sindone. Non basta il nostro gesticolare (cuccette=segno
della nanna, tipo gioca jouer). Si alza perplessa e chiama una collega
più giovane. La fila di cinesi aspetta paziente. C'è un tornello anche
in biglietteria, per cui devo sporgermi per assistere Luca nella
stipulazione del biglietto per Chengdu, che dopo tante tribolazioni
riusciamo finalmente ad ottenere.
Kunming
La zona attorno alla stazione è popolata da qualche faccia poco
raccomandabile; saliamo sul taxi (che ha la griglia metallica) e al
primo incrocio un poliziotto consegna al tassista una fotocopia con le
foto dei ricercati del giorno. Andiamo bene! Scendiamo al Seagull hotel,
di fronte ad uno degli ingressi del Parco del Lago Verde. Paghiamo 300
yuan la tripla; camere anonime, triste moquette grigia. Le cameriere
bussano due volte, la prima per rifare i letti, la seconda per darci il
tè o qualcosa di simile. Noi, dopo il viaggio della speranza, abbiamo
solo voglia di lavarci e fare un pisolino, per cui le invitiamo a
tornare dopo o mai più. Narcolessia diffusa, gag sulle microspie del
Partito piazzate ovunque (Mao di m.. cioè.. Grande Mao!). Serata nel
mercato notturno, in realtà un quadrilatero di negozi con aspirazioni
occidentali. Solita piazza al neon e discoteche che pompano hardcore
(cinese!). Il giovane autoctono trasgressivo è una specie di emo coi
capelli cotonati, una cosa che fa passare l'appetito. Ma non a noi,
infatti entrimo in un ristorante in cui assaggiamo praticamente tutti i
primi locali, ravioli trasparenti al vapore, linguine piccanti, tortini
dolci con ripieni indefiniti (fichi? alghe? mah..). Dopo il ruttino,
entriamo in una discoteca, è piena ma è talmente inutile che usciamo
senza neanche bere. Presenza di occidentali pressochè nulla, infatti ci
guardano spesso con occhi sgranati ("I'm an alien in Kunming.."). Per
strada banchetti espongono ogni tipo di carne immaginabile da grigliare
al momento, gamberi di fiume, larve, fegati, cavallette, cervelli (dalle
dimensioni direi di pecora, nella migliore delle ipotesi). Qui va
moltissimo l'anatra, te la trovi ovunque, nelle zuppe ci mettono pure
teste e zampe.
Dali
Dopo una pulmanata di 6 ore, eccoci finalmente a Dali. L'ultimo
terzo del viaggio, essendo chiusa per lavori una parte dell'autostrada,
lo abbiamo fatto attraverso le montagne, inerpicandoci su tornati
affacciati su stupendi paesaggi di campagna, vediamo passare donne di
etnia Bai con i loro elaborati copricapi. La periferia di Dali è
terrificante, edifici alti e brutti, rottamai, modernità scadenti. La
guida dice che a Dali abitano 40.000 persone, forse parla della sola
città vecchia: infatti la vallata sembra Città del Messico, i pendii
totalmente ricoperti di case. Bus-triciclo, poi un tratto in pulmino, ed
eccoci a Dali vecchia, un dedalo di viette e decorazioni, forse un po'
artificiale ma piacevole, ruscelletti e cascatelle nelle vie, tutto
molto curato. ristoranti all'aperto, negozietti di artigianato; fra gli
oggetti degni di nota quelli di marmo (vasi, sculture), poi gli
onnipresenti pettini di bufalo, qualche ceramica, braccialetti di giada,
medaglioni delle festività, flauti fatti con zucche e bambù, per il
resto la solita chincaglieria. Molti turisti cinesi, pochissimi
occidentali. Delle donne Bai offrono ganja e un nero con un retrogusto
di fieno. Ceniamo in una piacevole vietta ai bordi di un canaletto, tra
le lanterne rosse; un ratto corre felice tra i tavoli ma nessuno lo
prende sul serio. Il clima qui è molto più fresco che nelle umide
pianure, di sera si sta bene a maniche lunghe. Troviamo un hotel anonimo
in una via traversa, 100 yuan la doppia, attacco la zanzariera perchè
ne svolazzano parecchie.
La decisione di noleggiare 3 biciclette per tutto il giorno (30
yuan a testa) è stata la migliore che potessimo fare. Ci siamo diretti
verso le tre pagode simbolo di Dali ma, giunti di fronte, abbiamo
desistito. A parte i 121 yuan d'ingresso, non ci sembrava che fossero
granchè. Per chi è stato in Thailandia questi templi non sono molto
interessanti, e in particolare questi sembrano abbastanza spartani.
Quindi, dopo dieci minuti di relax nell'ampio spiazzo davanti agli
ingressi, rimontiamo in sella e ci dirigiamo verso i paesini che
intravediamo sui pendii delle colline che circondano la città. Dopo una
lunga pedalata, arriviamo in uno di essi,dove il tempo sembra essersi
fermato, uomini col cappello della rivoluzione che parlano e fumano,
donne con i costumi etnici che trasportano pesanti gerle colme di
pannocchie ed altri ortaggi, bambini che sbirciano da dietro gli angoli e
ridendo ci apostrofano wai lai. Le case sono molto caratteristiche, con
i muri bianchi dipinti con paesaggi e motivi geometrici neri. Strette
strade di ciottoli, una piccola piazza con un negozietto che vende
tutto, le poche persone ci osservano curiose. La mtb ci consente di
infilarci in ogni anfratto e sentiero, raggiungiamo uno slargo fra le
boscaglie dove riposarci un attimo nella frescura della vegetazione.
Dopo un po' che siamo lì mi accorgo che attorno a noi ci sono delle
piante di canapa, probabilmente spontanee. Continuiamo il nostro
percorso per i campi, su sottili sentieri sassosi, dirigendoci verso il
lago che intravediamo a fondo valle, sempre cercando di evitare le
grosse strade trafficate. In riva al lago ci godiamo una sigaretta,
lanciandoci qualche sguardo esplorativo con un capannello di ragazzotti
che poco lontano ha la sua base. Pioviggina, ma non dà fastidio. Donne
con i cappelli di paglia curve nel riso, muratori che lavorano sotto il
sole cocente, vecchi che giocano a dama cinese nella penombra di un
circolo. Passiamo in bici per diversi villaggi, percorrendo almeno una
ventina di chilometri.
Abbiamo poi raggiunto un tempietto abbastanza isolato, con degli
edifici ancora in costruzione, attorno solo la casa del custode e di
qualche famiglia contadina. Accanto al buddha razzolano maiali ed oche.
Nel cortile ci sono delle nicchie di mattoni con dentro il fuoco, i
fedeli pregano buttandoci dei mortaretti o bruciando dei parallelepipedi
di carta. Entriamo nel tempio, grandi buddha (il principale nella
posizione detta "dello scrocchiamento di dita prima della rissa").
Incensi, fogli di preghiera, cuscini su cui qualche fedele si
inginocchia e si rialza decine di volte. Fuori il custode, un anziono
signore molto gentile, ci invita a prendere il tè con lui, e non
possiamo rifiutare la sua squisita ospitalità. Sotto lo sguardo di due
statue nella nicchia, una di buddha e l'altra di Mao, consumiamo con lui
l'insipida brodaglia bollente, assaporando più che altro l'istante.
Abbiamo con lui una lunga discussione, parliamo senza capirci, lui in
dialetto montanaro cinese, noi in italiano, ma serve ad accorciare le
distanze, capisco ora il significato dell'affermazione "medium is the
message". In realtà parlarci l'un l'altro è una comunicazione di per sè,
è rassicurante e ci consente di scambiarci impressioni anche se non
capiamo niente di ciò che ci stiamo dicendo; la scena è surreale. Il
significato è relativo, i concetti principali li mimiamo a gesti.
Infatti dopo un po' il vecchio fa il gesto di "se magna" e lo capiamo
subito, ci invita a seguirlo nella sua casa. Qui c'è tutta la comunità
delle poche case, qualche donna, delle bambine, un bonzo vestito di
giallo. Consumiamo il pranzo con loro, riso, insalata bollita, pezzi di
pollo, melanzane piccanti, fagioli verdi e rossi, sfogliate di farina di
riso, verdure irriconoscibili ma buone. Da bere niente, infatti dopo un
po' evito i cibi piccanti, si vede che loro a tavola non bevono e non
mi va di fare il piangina. Dopo pranzo ringraziamo e beviamo altro tè,
mentre il custode legge un libro di preghiere e sgrana una specie di
grosso rosario. Alle sue spalle una donna confeziona delle specie di
camicie di carta, forse ad uso cerimoniale, mentre un vecchio muratore
lì vicino sta tirano su un muretto di mattoni tutto sbilenco. Un altra
lunga pedalata ci riporta in città, dove ceniamo ed andiamo a letto
presto, visto che le vasche (o "struscio") nei viali verso mezzanotte è
già finito.
Chengdu
Sul treno per Chengdu. Le cuccette della terza classe sono
decenti, una famigliola con nonna e bimba che divide lo scompartimento
con noi ci offre biscotti, cicche e strani frutti rossi. Tutti hanno il
loro thermos con the e foglie varie, oppure consumano i famigerati
spaghetti liofilizzati. La comunicazione, come il solito, è ridotta
all'osso. Chengdu ci accoglie come una pezza calda bagnata buttata in
faccia; il clima è torrido, l'umidità al 100%, lo smog una coltre spessa
che ricopre la città. Fuori dalla stazione i soliti milioni di cinesi
che ci guardano stupefatti. Un triciclo per 50 yuan ci porta al Traffic
Inn Hotel, un albergone anonimo dove prendiamo una tripla triste (120
yuan). Un sole pallido si affaccia timidamente dalla patina giallo
grigiastra del cielo. Soliti palazzoni e incroci trafficati. Il fiume
verdognolo è solcato da aironi bianchi. A fianco del nostro hotel c'è
l'omonimo ostello, che scopriamo essere luogo di passaggio di una certa
fauna eterogenea di viaggiatori e scappati di casa vari. La sera la
passiamo con questa compagnia, tra birre, film e partite a ping pong.
Giornata dedicata ad uno spensierato cazzeggiare per la città.
Prendiamo l'autobus 55 e scendiamo, grazie ad un'attenta analisi del
percorso, proprio di fronte al complesso del tempio Wenshu, che si
rivela una piacevole sorpresa: è molto ben tenuto, all'interno di una
cinta di mura che comprende anche un parco, una sala da the ed altri
edifici. Insolitamente è semideserto, per cui possiamo passeggiare
tranquillamente senza dover fendere la folla come spesso accade. Ci
troviamo ad essere noi, qualche bonzo affaccendato nelle sue cose, un
gatto bianco che zampetta indisturbato tra i buddha nella penombra.
Un'atmosfera di quiete regna su tutto, ci soffermiamo pigramente ad
osservare le sculture e le ricche finiture dei templi, ed i bonzi che
recitano i loro mantra ipnotici. Usciamo, cercando un po' di ombra per
riprendere fiato e idratarci con qualche bibita cinese. Nel viale che
corre accanto al tempio ci sono decine di negozi che vendono articoli
militari, l'ideale se si deve prendere materiale da campeggio o da
viaggio; ne approfitto per prendere un paio di bermuda tecnici color
camouflage e una bussola professionale. Prendiamo quindi l'autobus 16
che ci scarica in Jin Long Plaza, un grande spiazzo in fondo al quale si
erge imperiosa un'alta statua bianca di Mao; e poi sculture dorate di
dragoni stilizzati, una tela futurista di grattacieli squadrati ed altri
in costruzione, un ledwall con immagini di cinesi felici che comprano
qualcosa. Rari gli occidentali in giro.
Leshan
In pullman, direzione Leshan. Il cielo è grigio, il paesaggio
per ora è piatto e monotono, la versione cinese della pianura Padana,
cartelloni, quartieri residenziali per la piccola borghesia e gli
impiegati statali. La voce monocorde della guida ci ha già massacrato le
palle, sono tre quarti d'ora che smiagola il suo idioma irritante nel
microfono. Luca ed Ale affrontano il viaggio con la narcolessia, per cui
mi annoio in modo insopportabile. L'autista ci mette del suo andando a
60 all'ora sulla strada dritta e sgombra, per cui i 126 km diventano uno
stillicidio. Dopo un po' fortunatamente arriviamo. Il compleso di
Leshan è molto esteso; in pratica si tratta di un grosso parco
attraversato da lunghi sentieri, alcuni dei quali anche un po'
impegnativi, considerando anche il clima subtropicale. Il Buddha gigante
scolpito nella roccia, o almeno il più famoso della zona, è una visione
monumentale che appare all'improvviso, ne scorgiamo prima la testa
(alta una quindicina di metri) e con una scaletta laterale arriviamo
fino alla base fra i giganteschi piedi. La gente è tanta, per cui non è
sempre facile spostarsi o trovare qualche posto un po' tranquillo. La
passeggiata procede verso un tempietto con un porticato ed un laghetto
con i pesci rossi, dove la guida si ferma a pigolare mezzora nozioni a
noi incomprensibili, due giapponesi condividono il nostro sgomento, gli
stessi turisti cinesi sono straziati dalla noia . Ci sdraiamo sulle
panche e la voce della guida diventa una piacevole ninna nanna. Ci
riprendiamo bruscamente, è ora di rimettersi in marcia. Dopo un lungo
tragitto a piedi nella boscaglia raggiungiamo un complesso di grotte
umide, all'interno delle quali sono scolpite divinità a più braccia
sapientemente illuminate e demoni guardiani. All'uscita delle grotte, la
visuale si spalanca sull'intera vallata sotto, in cui si scende con una
ripida scalinata interrotta da chioschetti decorativi con dragoni e
sculture varie. Lungo le catene passamano e sugli altarini sono
attaccati migliaia di lucchetti, alcuni dei quali veramente usurati,
direi che sono lì almeno da parecchi decenni.
Alla base della collina un buddha dorato moderno, davanti al
quale sculture bronzee di poppute ninfe in stile indiano danzano
nell'acqua. Un alto obelisco bianco, sorretto da elefanti di marmo, sul
quale sono scolpiti centinaia di piccoli buddha. Si cammina ancora un
po' e, attraversato un ponte, si può vedere l'altro enorme buddha
scolpito nella roccia, una figura imponente, sdraiata, che misura 175
metri; purtroppo sono visibili solo la testa ed i piedi, il resto è
ricoperto dalla vegetazione. Alcuni turisti fanno delle foto ricordo con
scimmiette vestite di seta dorata e pavoni legati sui trespoli a fianco
di un'altalena decorata, noi non alimentiamo questo triste business e
ci avviamo verso il pulmann che ci porterà all'appuntamento più atteso:
il pranzo! Solito ristorante della zia, dividiamo il tavolo con i
giapponesi ed un paio di brufolosi teenager cinesi molto cortesi. Il
cibo si rivela una fetenzia: riso scotto, verdure innominabili, insalata
bollita ed un pesce gatto che sa di fango. Si salvano solo delle
polpette di carne (di quale animale preferiamo non scoprirlo). Ci
alziamo vagamente disgustati ed ancora affamati. Fuori, noi tre veniamo
incomprensibilmente dirottati su un camioncino scassato che, dopo aver
imboccato contromano il viale d'uscita dell'autostrada, si ferma in
corsia d'emergenza e ci lascia lì, dicendoci che di lì a poco sarebbe
passato un altro pullman per Chengdu. Lo tratteniamo praticamente in
ostaggio, e ci stupiamo quando dopo cinque minuti il bus arriva davvero e
ci carica. Al ritorno abbiamo ulteriori conferme dell'incapacità
dell'orientale alla guida nel traffico: sclacsonate inutili e continue,
zig zag a continuo rischio di collisione, sorpassi in corsia
d'emergenza. La sera, stanchi come dei minatori, la passiamo al baretto
dell'ostello, facendo due chiacchiere col Beretta, un brianzolo che da
una decina di mesi gira per l'Asia. Il bello di vivere in un Paese che
offre poche prospettive è che puoi girare spensieratamente il mondo. Ci
racconta di alcune zone della Birmania e di altri Paesi i cui è stato,
ricambiamo con le nostre storie ed esperienze. Dopo una birretta ed un
paio di mail, tutti a nanna.
Panda Base
Gitarella al Panda Breeding Centre, 11 km a nord di Chengdu.
Si tratta di un parco dedicato alla salvaguardia di panda e panda rossi
(simili a dei procioni). Fortunatamente la giornata è piovosa, per cui
gli animali si avventurano al di fuori delle zone d'ombra e possiamo
vederli ciondolare pigramente e masticare il loro cibo preferito, foglie
e germogli di bambù. Il panda è uno dei pochi animali che in Cina,
fortunatamente, gode di rispetto e tutela, anche perchè viene usato
spesso come dono diplomatico (recentemente ne sono stati regalati un
paio a Taiwan per ingraziarsi i politici locali). Nella nursery vediamo
anche dei cuccioli ed uno che deve essere appena stato partorito,
infatti è ancora cieco e sembra un topolino senza pelo. Il piacevole
giro dura un paio d'ore, e si conclude nel museo del parco che raccoglie
materiale vario inerente ai panda.
In serata ci presentiamo dalla ragazza dell'agenzia per ritirare i permessi per il Tibet, che come temevamo esordisce con "I'm solly solly". Per un disguido non è arrivato, tutto slitta quindi di un giorno e si accollano loro le spese. La tipa si prodiga per placare la nostra ira funesta, ma capiamo che non dipende da loro e ci rassegniamo. Per smaltire la delusione, passiamo la serata al Jellyfish, localino occidentalizzante nella zona universitaria (Zidonglu Section); gente e Cuba Libre non male.
In serata ci presentiamo dalla ragazza dell'agenzia per ritirare i permessi per il Tibet, che come temevamo esordisce con "I'm solly solly". Per un disguido non è arrivato, tutto slitta quindi di un giorno e si accollano loro le spese. La tipa si prodiga per placare la nostra ira funesta, ma capiamo che non dipende da loro e ci rassegniamo. Per smaltire la delusione, passiamo la serata al Jellyfish, localino occidentalizzante nella zona universitaria (Zidonglu Section); gente e Cuba Libre non male.
Chengdu
Stamattina mi sveglio presto e mi faccio un giro da solo per il
centro cittadino. Prima un po' di allenamento con gli anziani sulle
macchine-taichi, poi vagabondaggio nei negozi di abbigliamento e di
elettronica. Sulla strada del ritorno entro in un negozio di sculture;
il gestore, un ragazzo poco più che ventenne, mi mostra le opere
spiegandomele dettagliatamente una ad una, e nel mentre mi offre acqua
calda. Lo vedo in apprensione mentre prendo in mano manufatti di estrema
delicatezza. La maggior parte delle sculture sono in marmo bianco con
fitte venature rosse, oggetti veramente degni di nota, ed i prezzi vanno
dai 1000 ai 5000 yuan; quando gli faccio capire che sono fuori dalla
mia portata lui sorride e mi dice che a lui interessa che io conosca
meglio la sua cultura, e non c'è ipocrisia mentre lo dice. Mi spiega che
i dragoni della tradizione cinese sono tutti benevoli, al contrario di
quelli occidentali. Poi, sempre nel suo anglo-cinese, insiste per sapere
la mia data di nascita e mi spiega tutte le caratteristiche del mio
segno, il cavallo. Consulta un voluminoso librone finchè trova il
momento in cui sono nato. I miei elementi sono l'oro e l'acqua, i miei
colori sono bianco, dorato, nero e blu; i miei punti cardinali favoriti
sono il nord e l'ovest ed il mio numero portafortuna è il 4. Mi spiega
anche che, se volessi avere un segno portafortuna di marmo sulla
scrivania, non dovrebbe essere un cavallo, ma un segno amico, ad esempio
una capra (Ale è una capra, e più tardi si rallegra di essere un
talismano vivente per me e Luca).
Nel pomeriggio visitiamo il quartiere tibetano, che sembra abbastanza posticcio pur conservando parecchi elementi interessanti: si riduce a qualche via affollata ricca di negozietti di artigianato (i prezzi, ovviamente, sono il quintuplo del normale per noi gaijin); i cinesi che passeggiano sono più incuriositi da noi che dalle tibetanate. Ci chiedono più volte di fare delle foto assieme a loro, e viviamo i nostri bei momenti di celebrità.
Nel pomeriggio visitiamo il quartiere tibetano, che sembra abbastanza posticcio pur conservando parecchi elementi interessanti: si riduce a qualche via affollata ricca di negozietti di artigianato (i prezzi, ovviamente, sono il quintuplo del normale per noi gaijin); i cinesi che passeggiano sono più incuriositi da noi che dalle tibetanate. Ci chiedono più volte di fare delle foto assieme a loro, e viviamo i nostri bei momenti di celebrità.
verso Lhasa
Stamattina ci siamo svegliati all'alba per prendere l'aereo,
che è partito con un'ora abbondante di ritardo. Ci lasciamo alle spalle
Chengdu, l'anticamera del Tibet, con le sue contraddizioni fra il non
lontano passato feudale e la modernità importata dai cinesi. Il pasto a
bordo consiste in una vaschetta di riso liquefatto, pane burro e un
brownie. L'aeroporto di Lhasa è veramente piccolo, in duecento metri
siamo dall'aereo al parcheggio, dove ci attende Lodoe, la nostra guida
tibetana. L'aria è tersa e rarefatta, montagne aguzze e brulle
circondano la valle, la vegetazione è composta da sterpaglie. Lungo la
strada, il territorio paludoso è il luogo in cui l'immenso Brahmaputra
inizia a raccogliere le forze per la sua tortuosa discesa verso l'India.
Con il furgoncino seguiamo la provinciale poco affollata di mezzi,
qualche villaggio, case isolate su cui sventola più o meno
spontaneamente la bandiera cinese. Gli altri colgono l'occasione del
trasferimento per sonnecchiare un po', io invece sono avido di emozioni
tibetane.
Lhasa
Per un paio di giorni non ho scritto, c'è così poco tempo per
fare tutto. La permanenza ad orologeria in Tibet concessa dai cinesi
impedisce di cogliere serenamente tutti gli aspetti che la tranquilla
realtà tibetana offre. Lhasa. Cinque lettere per descrivere un
universo. La strada che la taglia in due, perentoriamente chiamata via
Pechino, passa davanti al Potala, su cui svetta la bandiera cinese, nel
caso qualcuno dimenticasse che il Tibet non è più indipendente. La parte
più antica della città, che inaspettatamente conserva ancora forti le
proprie radici e la propria identità, si raccoglie attorno al tempio
Jokhang, in un dedalo di viette e stradine che mai mancano di riservare
qualche sorpresa. In una di queste strade troviamo alloggio, un anonimo
ostello gestito da cinesi che sembra una caserma, con due posti in
camera e uno in camerata. Ha il pregio di essere posizionato bene fra
l'arteria principale e il Barkhor.
I tibetani, fisicamente, sono abbastanza diversi dai cinesi, tanto che li si può facilmente distinguere; hanno infatti tratti più spigolosi, gote rosee, nasi più adunchi ed occhi affilati, mentre i cinesi in genere hanno tratti più dolci ed affusolati. La nostra guida ed interprete, Lodoe, è orgoglioso di essere tibetano, e ci racconta la sua storia. Da piccolo, è stato portato dal padre in Nepal per poter studiare l'inglese e non essere indottrinato dai cinesi. Sono espatriati passando attraverso le montagne come profughi, poichè ai tibetani tuttora non è concesso il passaporto. Dice che i tibetani aspettano il ritorno del Dalai Lama e l'appoggio internazionale per avere l'indipendenza, oppure che la Cina collassi su sè stessa come l'ex Unione Sovietica. Insomma, campa cavallo.. Lui stesso è scettico, capisce che la battaglia per il futuro del suo Paese si giocherà tutta sull'ostinata conservazione delle proprie tradizioni di fronte alla strabordante invasività economica e culturale della Cina. Naturalmente la questione tibetana meriterebbe un più ampio approfondimento di quanto sia possibile in un diario di viaggio dopo qualche giorno passato a Lhasa. La mia impressione è che, se i cinesi fossero furbi come spesso sono, capirebbe che conservare l'identità del Tibet conviene anche a loro, sia in termini di prestigio internazionale, ma anche in vista dell' indotto creato dal turismo, che qui ha potenzionalità straordinarie se viene comunque amministrato con lungimiranza, impedendo che Lhasa diventi una città con neon e palazzoni di calcestruzzo come mille altre città cinesi. I tibetani sono un popolo pacifico, come sempre la civile convivenza sarebbe l'ipotesi più auspicabile, ma è sempre difficile da realizzare in concreto. Lodoe sarebbe insegnante, ma la scuola in cui lavorava è stata distrutta da un'alluvione e lui campa facendo da guida e con altri lavoretti. Ha solo ventiquattro anni ma è una buona fonte di notizie e ci aiuta ad affrontare la labirintica capitale. Con lui, il primo giorno, assistiamo alle celebrazioni finali della festa dello yoghurt, una delle poche ancora concesse in cui i tibetani si ritrovano per festeggiare assieme. Le esibizioni canore e danzanti sono modeste, ma il vero spettacolo è il pubblico che assiste ai lati, ordinato e serio come se fosse a teatro, gli uomini con il cappello da rodeo, le donne nei lunghi abiti colorati. Poco lontano, una mostra mercato di bonsai, alcuni dei quali di rara bellezza, fra cui uno di bouganville ..vabbè. Il Potala ormai è quasi interamente accessibile ai fin troppi turisti, quasi tutti cinesi. Noi ci facciamo largo fra la folla con un po' di spavalderia, dicendo "Diplomatic!", mentre Lodoe si inoltra saltando la coda inaffrontabile all'ingresso. Le larghe scalinate per accedere alla parte superiore del tempio sono probabilmente fatte per essere risalite a cavallo; sotto il sole implacabile e con l'aria rarefatta necessitano di qualche pausa, indispensabile anche per ammirare il maestoso panorama e le rifiniture esterne della costruzione. All'interno, un dedalo costituito dagli antichi luoghi di ritrovo e preghiera dei monaci, fino alle stanze private del Dalai Lama. Il percorso è disseminato fittamente di sculture dei vari bodhisattva, troni, rotoli di preghiere, portalumi dorati in cui brucia eternamente burro di yak illuminando fiocamente il labirinto ormai affidato alle sole cure dei custodi. Non srotolano più le antiche preghiere in sanscrito gli antichi monaci, nè il giovane Dalai Lama osserva incuriosito il mondo dalle sue stanze agli ultimi piani. Il turismo, con il mio incolpevole contributo, ha fagocitato anche questo edificio (per ora senza infortuni, grazie anche alla protezione garantita da enti come l'Unesco). In fondo anche il Duomo di Milano è un tempio sacro, che però tutti i cittadini che ne hanno rispetto possono visitare senza problemi, perchè sono meraviglie costruite dall'uomo a cui tutti devono poter accedere. Il cuore pulsante della cultura tibetana è invece il Barkhor, il quartiere che circonda il tempio Jonkhang, che rimane il mio preferito. Attorno ad esso si consuma lo spettacolo della tumultuosa quotidianità tibetana, tra le ispirazioni religiose e le bancarelle fitte di metalli e tessuti, gli incensi e le magliette cinesi. I tibetani camminano tutti in senso orario rispetto al tempio, recitando i mantra cantilenanti o spulciando fra gli oggetti in vendita, alcuni fedeli gettandosi a terra facendo handboarding con delle tavolette di legno. Molti, soprattutto gli anziani, ruotano delle specie di scettri, detti anche mulini della preghiera, contenenti rotoli di antichi mantra che girando si diffondono in tutte le direzioni. Anche un occidentale annoiato potrebbe stare ore ad osservare il semplice fluire della gente senza annoiarsi, tale è la varietà di etnie e personaggi che da tutto il Paese convergono in queste strette vie. Abbiamo contato tre gruppi etnici principali, esclusi i cinesi: i cowboy, i treccia rossa e gli scappati di casa. Hanno tutti l'aria di soddisfatta gente semplice di montagna, con le gote rosse e i modi rustici. Di monaci in città se ne vedono pochi, anche per via dei recenti disordini in occasione delle olimpiadi di Pechino del 2008. La situazione ora appare tranquilla, a parte qualche cecchino sui palazzi nella piazza principali e soldati cinesi che a gruppetti di cinque pattugliano pigramente la città; perlopiù sono tutti ragazzini di leva con il fucile più grande di loro. La sbirranza semplice invece è affidata ai tibetani. La cucina più tradizionale si basa essenzialmente su un'unico animale: lo yak. Lo abbiamo assaggiato in ogni modo, nei tortelli, alla brace, con i funghi, ed è sempre squisito, ci ha permesso una pausa dai forti sapori cinesi. Chissà se il primo fast food cinese che già è stato aperto in centro farà cambiare anche le radicate abitudibni culinarie di questo fiero popolo. Di notevole in città visitiamo anche uno fra gli unici conventi in Tibet, dove le monache tuttora pregano e coltivano i loro medicamenti. L'artigianato è vario e ci sono molti "ricordini" da portare a casa, ma bisogna stare attenti alle molteplici imitazioni cinesi e alla furbizia dei mercanti. Prendo una maschera di Mahakala di legno dipinto, un coltello Khampa, campane a forma di ciotola da suonare ruotando un cilindro di legno, qualche maglietta e altro. Viaggiando zaino in spalla non si può prendere tutto, anche perchè gli oggetti che valgono non sono spesso per le mie tasche. Delle immagini che restano? L'immensa piazza di fronte al Potala, di notte, con solo noi tre e qualche altro che camminiamo nella luce gialla dei lampioni che si riflette sulla distesa di mattonelle; il quartiere della moschea lontano dal chiasso del Barkhor, la piazza centrale che dalla terrazza ci ricorda per qualche ragione Jemaa el Fna a Marrakech. Ma è già ora di partire, con il treno che affronterà il tragitto ferroviario più in alto del mondo.
I tibetani, fisicamente, sono abbastanza diversi dai cinesi, tanto che li si può facilmente distinguere; hanno infatti tratti più spigolosi, gote rosee, nasi più adunchi ed occhi affilati, mentre i cinesi in genere hanno tratti più dolci ed affusolati. La nostra guida ed interprete, Lodoe, è orgoglioso di essere tibetano, e ci racconta la sua storia. Da piccolo, è stato portato dal padre in Nepal per poter studiare l'inglese e non essere indottrinato dai cinesi. Sono espatriati passando attraverso le montagne come profughi, poichè ai tibetani tuttora non è concesso il passaporto. Dice che i tibetani aspettano il ritorno del Dalai Lama e l'appoggio internazionale per avere l'indipendenza, oppure che la Cina collassi su sè stessa come l'ex Unione Sovietica. Insomma, campa cavallo.. Lui stesso è scettico, capisce che la battaglia per il futuro del suo Paese si giocherà tutta sull'ostinata conservazione delle proprie tradizioni di fronte alla strabordante invasività economica e culturale della Cina. Naturalmente la questione tibetana meriterebbe un più ampio approfondimento di quanto sia possibile in un diario di viaggio dopo qualche giorno passato a Lhasa. La mia impressione è che, se i cinesi fossero furbi come spesso sono, capirebbe che conservare l'identità del Tibet conviene anche a loro, sia in termini di prestigio internazionale, ma anche in vista dell' indotto creato dal turismo, che qui ha potenzionalità straordinarie se viene comunque amministrato con lungimiranza, impedendo che Lhasa diventi una città con neon e palazzoni di calcestruzzo come mille altre città cinesi. I tibetani sono un popolo pacifico, come sempre la civile convivenza sarebbe l'ipotesi più auspicabile, ma è sempre difficile da realizzare in concreto. Lodoe sarebbe insegnante, ma la scuola in cui lavorava è stata distrutta da un'alluvione e lui campa facendo da guida e con altri lavoretti. Ha solo ventiquattro anni ma è una buona fonte di notizie e ci aiuta ad affrontare la labirintica capitale. Con lui, il primo giorno, assistiamo alle celebrazioni finali della festa dello yoghurt, una delle poche ancora concesse in cui i tibetani si ritrovano per festeggiare assieme. Le esibizioni canore e danzanti sono modeste, ma il vero spettacolo è il pubblico che assiste ai lati, ordinato e serio come se fosse a teatro, gli uomini con il cappello da rodeo, le donne nei lunghi abiti colorati. Poco lontano, una mostra mercato di bonsai, alcuni dei quali di rara bellezza, fra cui uno di bouganville ..vabbè. Il Potala ormai è quasi interamente accessibile ai fin troppi turisti, quasi tutti cinesi. Noi ci facciamo largo fra la folla con un po' di spavalderia, dicendo "Diplomatic!", mentre Lodoe si inoltra saltando la coda inaffrontabile all'ingresso. Le larghe scalinate per accedere alla parte superiore del tempio sono probabilmente fatte per essere risalite a cavallo; sotto il sole implacabile e con l'aria rarefatta necessitano di qualche pausa, indispensabile anche per ammirare il maestoso panorama e le rifiniture esterne della costruzione. All'interno, un dedalo costituito dagli antichi luoghi di ritrovo e preghiera dei monaci, fino alle stanze private del Dalai Lama. Il percorso è disseminato fittamente di sculture dei vari bodhisattva, troni, rotoli di preghiere, portalumi dorati in cui brucia eternamente burro di yak illuminando fiocamente il labirinto ormai affidato alle sole cure dei custodi. Non srotolano più le antiche preghiere in sanscrito gli antichi monaci, nè il giovane Dalai Lama osserva incuriosito il mondo dalle sue stanze agli ultimi piani. Il turismo, con il mio incolpevole contributo, ha fagocitato anche questo edificio (per ora senza infortuni, grazie anche alla protezione garantita da enti come l'Unesco). In fondo anche il Duomo di Milano è un tempio sacro, che però tutti i cittadini che ne hanno rispetto possono visitare senza problemi, perchè sono meraviglie costruite dall'uomo a cui tutti devono poter accedere. Il cuore pulsante della cultura tibetana è invece il Barkhor, il quartiere che circonda il tempio Jonkhang, che rimane il mio preferito. Attorno ad esso si consuma lo spettacolo della tumultuosa quotidianità tibetana, tra le ispirazioni religiose e le bancarelle fitte di metalli e tessuti, gli incensi e le magliette cinesi. I tibetani camminano tutti in senso orario rispetto al tempio, recitando i mantra cantilenanti o spulciando fra gli oggetti in vendita, alcuni fedeli gettandosi a terra facendo handboarding con delle tavolette di legno. Molti, soprattutto gli anziani, ruotano delle specie di scettri, detti anche mulini della preghiera, contenenti rotoli di antichi mantra che girando si diffondono in tutte le direzioni. Anche un occidentale annoiato potrebbe stare ore ad osservare il semplice fluire della gente senza annoiarsi, tale è la varietà di etnie e personaggi che da tutto il Paese convergono in queste strette vie. Abbiamo contato tre gruppi etnici principali, esclusi i cinesi: i cowboy, i treccia rossa e gli scappati di casa. Hanno tutti l'aria di soddisfatta gente semplice di montagna, con le gote rosse e i modi rustici. Di monaci in città se ne vedono pochi, anche per via dei recenti disordini in occasione delle olimpiadi di Pechino del 2008. La situazione ora appare tranquilla, a parte qualche cecchino sui palazzi nella piazza principali e soldati cinesi che a gruppetti di cinque pattugliano pigramente la città; perlopiù sono tutti ragazzini di leva con il fucile più grande di loro. La sbirranza semplice invece è affidata ai tibetani. La cucina più tradizionale si basa essenzialmente su un'unico animale: lo yak. Lo abbiamo assaggiato in ogni modo, nei tortelli, alla brace, con i funghi, ed è sempre squisito, ci ha permesso una pausa dai forti sapori cinesi. Chissà se il primo fast food cinese che già è stato aperto in centro farà cambiare anche le radicate abitudibni culinarie di questo fiero popolo. Di notevole in città visitiamo anche uno fra gli unici conventi in Tibet, dove le monache tuttora pregano e coltivano i loro medicamenti. L'artigianato è vario e ci sono molti "ricordini" da portare a casa, ma bisogna stare attenti alle molteplici imitazioni cinesi e alla furbizia dei mercanti. Prendo una maschera di Mahakala di legno dipinto, un coltello Khampa, campane a forma di ciotola da suonare ruotando un cilindro di legno, qualche maglietta e altro. Viaggiando zaino in spalla non si può prendere tutto, anche perchè gli oggetti che valgono non sono spesso per le mie tasche. Delle immagini che restano? L'immensa piazza di fronte al Potala, di notte, con solo noi tre e qualche altro che camminiamo nella luce gialla dei lampioni che si riflette sulla distesa di mattonelle; il quartiere della moschea lontano dal chiasso del Barkhor, la piazza centrale che dalla terrazza ci ricorda per qualche ragione Jemaa el Fna a Marrakech. Ma è già ora di partire, con il treno che affronterà il tragitto ferroviario più in alto del mondo.
Xining
Il treno da Lhasa attraversa panorami montagnosi brulli e poco
ospitali. Ampie vallate, yak che pascolano, qualche ghiacciaio in
lontananza, al crepuscolare l'atmosfera è lunare. Questa ferrovia è un
vanto dei cinesi, sognata da Mao ebbe termine solo nel 2006. Nelle
cabine sono presenti, e molti le usano, maschere di ossigeno, visto che
buona parte dei 1150 km fino a Xining sono oltre i 4000 metri. Un
signore si schiaffeggia, forse per reagire allo sforzo della pressione,
un altro chiede l'intervento della solerte bigliettaia-infermiera. Il
passo di Tanggula è a 5000 metri, ed infatti più o meno in quel punto mi
sveglio di soprassalto sentendomi strano, niente di insopportabile, a
parte un po' di sangue dal naso. Galleggiamo nei corridoi dalla luce
giallastra, la motrice diesel mastica chilometri di permafrost, fuori
dai finestrini la notte tibetana è un cielo nero che svela deserti
rossastri all'alba, ed infine i terrazzamenti coltivati dopo Golmund.
Arriviamo a Xining verso le 16:00, dopo tante ore di treno. La città è
circondata da montagne con un certo fascino, ed è tagliata dal Fiume
Giallo. Alla biglietteria della stazione cerchiamo già i biglietti per
Pechino, ma non serve fare la coda: dal tabellone gli implacabili
ideogrammi ci dicono che per almeno dieci giorni non c'è nemmeno un hard
seat. Facciamo la conoscenza di Xiao, un intraprendente personaggio da
scalo ferroviario, che si offre di "aiutarci". Parla inlglese, e suo
"cugino" ha un'agenzia di viaggi; visto che si trova più o meno in
centro decidiamo che tentar non nuoce. Ormai l'unica soluzione sembra
raggiungere Pechino con un volo interno, o provare intanto a raggiungere
Xian in qualsiasi modo. Dopo una votazione democratica ci accordiamo
per il volo a Pechino, e lo realizziamo seduta stante ad un prezzo
ragionevole. Xiao naturalmente può anche consigliarci una posto in cui
prendere una camera, cioè un hotel nel quartiere musulmano. Andiamo a
vederlo con riserva, ma visto che siamo distrutti dal viaggio e vogliamo
solo fare una doccia e appoggiare lo zaino, prendiamo una doppia
adattandola per tre, anche se la pulizia non è il fiore all'occhiello
dell'albergo. ("It's clean?", avevamo chiesto prima che Xiao ci portasse
all' hotel; e lui, "very clean!").
Le donne all'ingresso non sembrano capire neanche la più
semplice delle parole che diciamo loro, chiedere un cuscino e degli
asciugamani in più diventa un corale esercizio di mimica. Usciamo per
cercare da mangiare nei dintorni, il meglio che troviamo sono hamburger
cinesi da Dico's; al ritorno, sul marciapiede, seguiamo un'inquietante
scia di gocce di sangue per trecento metri, un macabro sentiero che si
interrompe bruscamente ad un incrocio e sulla cui origine ognuno ha la
sua ipotesi. Ci si accorge di avere a che fare con una Cina imparentata
con il Medio Oriente, i tratti sono più scuri e meno a mandorla, molte
donne hanno il velo; e non è difficile notare quanto l'influenza
islamica tenda a mitigare gli eccessi presenti in altre metropoli
cinesi. Qui convivono e si intrecciano da millenni comunità tibetane,
musulmane ed Han, e la città è un laboratorio di reciproca tolleranza e
cultura condivisa. Alla mattina, visitiamo la moschea, ci arriviamo
passeggiandoci e assaggiando i dolci delle pasticcerie arabe lungo la
strada. Nel cortile, sotto i minareti, anziani che chiacchierano mentre
leggono il giornale, sullo sfondo un arco ornamentale a pagoda ed in
lontananza gru che innalzano alti palazzi. Non possiamo accedere alle
zone di preghiera, ci accontentiamo di fare due passi nel cortile,
cogliendo dialoghi sussurrati e scorci inattesi. Nel pomeriggio, ci
facciamo due ore e mezza di treno e siamo a Lanzhou, sulla carta la
città più inquinata del pianeta, non notiamo grosse differenze rispetto
ad altre; sembra una copia di Xining ingrandita ed industrialmente
ottusa.
Pechino
Arriviamo che è buio e piove; fuori dalla stazione il primo
tassinaro ci chiede una cifra astronomica, lo mandiamo affa e ci
allontaniamo per cercarne uno più onesto. Chiedere di accendere il
tassametro è come domandare la fattura ad un dentista. Contrattiamo un
prezzo ragionevole e ci facciamo portare in Hengshan Road, una strada
vivace di locali e boutique artistiche, che attraversa gli hutong più
genuini e scalcinati, a qualche centinaio di metri dalla Città Proibita.
Non abbiamo prenotato, i primi due o tre posti in cui chiediamo non
hanno letti liberi; noi procediamo inflessibili, zaino in spalla e
sudore a fiotti, fra la gente che passeggia spensierata. Manufatti
moderni, giocattoli cinesi antichi, magliette con stampe originali,
abiti, borse, la via è piacevole e vale la pena cercare nelle traverse
laterali un albergo senza pretese. Lo troviamo infatti in un hutong meno
illuminato dalla ribalta, inoltre siamo ad un piano alto ed abbiamo una
buona visuale sui cortili che ci circondano e Pechino by night, che
vista così non sembra granchè. Il ragazzo al banco è sveglio, ci dà una
tripla con bagno ad un buon prezzo visto che gliela chiediamo già per
tre giorni.
Ritemprati dal meritato riposo, di buon ora ci incamminiamo verso la Città Proibita. Prima di entrare decidiamo di fare un pranzetto volante, in una bettola a qualche centinaio di metri dall'ingresso nord. Ordiniamo chiken noodles e due terribili carpe ricoperte di peperoncini piccanti; Luca tenta di finire il famigerato pesce ma deve desistere all'insorgere delle prime allucinazioni. In parte rinvigoriti dal pasto, affrontiamo la calca ed entriamo nel maestoso complesso, nella dimora dell'imperatore. E' un' estesa cittadella fortificata attorniata da un largo fossato, in cui predominano i rossi delle pareti e i gialli ocra dei tetti di tegole. Tentiamo di orientarci senza la piantina, lasciandoci guidare dalla curiosità o solo sfuggendo i raggruppamenti di folla. C'è da perdersi nel susseguirsi di vasti cortili e costruzioni laterali, grosse vasche di bronzo per le abluzioni, metallo fuso in aironi e draghi, piante secolari avvinghiate al selciato, le decorazioni imperiali che si stagliano contro la capitale moderna. Raggiungere la porta sud è una piacevole impresa. Dopo un ultimo filare di alberi e venditori ambulanti, varchiamo la soglia e ci troviamo sulla sconfinata piazza Tienanmen; sopra di noi, il famoso ritratto di Mao che osserva sereno il traffico e la piazza, si sgomita per fotografarcisi sotto, la guardia annoiata fissa impassibile il nulla. Il caldo è ora insopportabile, c'è un chioschetto che vende esclusivamente bibite calde (ci chiediamo quale sia l'iter burocratico o gli agganci per aprire l'unico chiosco in piazza Tienanmen, e poi non avere un frigo, c'è qualcosa di inspiegabile in tutto ciò). Gli edifici che sorgono in mezzo alla distesa la spezzano, rendendola impossibile da cogliere nel suo insieme. Ciononostante la attraversiamo per metà, e tagliamo a ovest verso "l'occhio", il Teatro nazionale dell'Opera, una imponente bolla di vetro e acciaio che emerge da un lago artificiale, con un futuristico ingresso subacqueo. Sulle pareti della fragile cupola, gli operai che lavano le finestre sembrano insetti intrappolati su una goccia di resina. Sulla strada del ritorno, Luca va a vedere il bizzarro edificio della televisione nazionale, mentre io ed Ale torniamo verso la tranquilla Hengshan, ma uno sbaglio di interpretazione della mappa ci fa vagare per un po' fra gli hutong senza nome, scorci di cortili stretti e di vecchi in canottiera e ciabatte, tricicli, ventagli e cani di piccola taglia, quasi sempre pechinesi o volpini. Una signora anziana canta in bicicletta, da un antro oscuro fradicio d'umidità arrivano voci concitate e profumo di soffritto. Luca si era ripromesso di scherzare a raccogliere ortiche per le strade di Pechino, in onore a Battiato, ma maggio è passato da mesi e non ne abbiamo trovate. Il giorno seguente, mentre gli altri continuano il tour classico andando a vedere la Grande Muraglia e le tombe Ming, io decido di proseguire dal lato meridionale di piazza Tienanmen fino al Tempio del Cielo. Il tragitto inizia da un largo viale pedonale attraversato da una monorotaia, ai lati boutiques dall'aria squadrata e pretenziosa. Un'arteria commerciale senz'anima che si perde in negozi sempre più anonimi, fino ad incrociare una trafficato stradone ad otto corsie. La camminata si prospetta non facile, le distanze a piedi iniziano a farsi sentire, soprattutto per l'afa implacabile. Cerco la direzione ad occhio, e dopo un po' mi imbatto finalmente nella cinta muraria del Tempio del Cielo. Si paga un ragionevole ingresso, e il parco all'interno mi consente una confortante pausa per rinfrescarmi dalla calura pechinese. Il tempo appena di asciugarmi, e vengo invitato da dei locali a giocare con un fresbee morbido che si prende con la testa e a palleggiare con una specie di volano: lo fanno tutti, bambini ed anziani compresi. Mi piacciono i vecchi cinesi, amano tenersi allenati e non si sentono ridicoli mentre fanno sport e si divertono. Il tempio in sè consiste in un insieme di edifici taoisti, dai simbolici tetti blu, in cui l'imperatore nel solstizio d'inverno veniva, seguito dalla corte, a pregare per il raccolto e per altri rituali astrologici. Basta sedersi su una gradinata all'ombra e stare ad osservare, le volte spioventi che osservano i secoli passare, due ragazzine giocano con il cellulare come ovunque altrove nel mondo, i padri di famiglia immortalano mogli e figlioletti con ogni scorcio possibile. Turisti frettolosi come noi, che portano a casa qualche ricordo e gigabyte di foto digitali. Dopo il Tempio proseguo verso il Mercato delle Perle, che a parte il nome altisonante, si rivela essere un palazzone con la merce suddivisa per piano, dove i singoli negozianti vendono al dettaglio elettronoca, abbigliamento, paccottiglie vari e perle.
Ora siamo nella stazione dei pullman ad attendere il bus con cuccette che ci porterà a Shangai.
Ritemprati dal meritato riposo, di buon ora ci incamminiamo verso la Città Proibita. Prima di entrare decidiamo di fare un pranzetto volante, in una bettola a qualche centinaio di metri dall'ingresso nord. Ordiniamo chiken noodles e due terribili carpe ricoperte di peperoncini piccanti; Luca tenta di finire il famigerato pesce ma deve desistere all'insorgere delle prime allucinazioni. In parte rinvigoriti dal pasto, affrontiamo la calca ed entriamo nel maestoso complesso, nella dimora dell'imperatore. E' un' estesa cittadella fortificata attorniata da un largo fossato, in cui predominano i rossi delle pareti e i gialli ocra dei tetti di tegole. Tentiamo di orientarci senza la piantina, lasciandoci guidare dalla curiosità o solo sfuggendo i raggruppamenti di folla. C'è da perdersi nel susseguirsi di vasti cortili e costruzioni laterali, grosse vasche di bronzo per le abluzioni, metallo fuso in aironi e draghi, piante secolari avvinghiate al selciato, le decorazioni imperiali che si stagliano contro la capitale moderna. Raggiungere la porta sud è una piacevole impresa. Dopo un ultimo filare di alberi e venditori ambulanti, varchiamo la soglia e ci troviamo sulla sconfinata piazza Tienanmen; sopra di noi, il famoso ritratto di Mao che osserva sereno il traffico e la piazza, si sgomita per fotografarcisi sotto, la guardia annoiata fissa impassibile il nulla. Il caldo è ora insopportabile, c'è un chioschetto che vende esclusivamente bibite calde (ci chiediamo quale sia l'iter burocratico o gli agganci per aprire l'unico chiosco in piazza Tienanmen, e poi non avere un frigo, c'è qualcosa di inspiegabile in tutto ciò). Gli edifici che sorgono in mezzo alla distesa la spezzano, rendendola impossibile da cogliere nel suo insieme. Ciononostante la attraversiamo per metà, e tagliamo a ovest verso "l'occhio", il Teatro nazionale dell'Opera, una imponente bolla di vetro e acciaio che emerge da un lago artificiale, con un futuristico ingresso subacqueo. Sulle pareti della fragile cupola, gli operai che lavano le finestre sembrano insetti intrappolati su una goccia di resina. Sulla strada del ritorno, Luca va a vedere il bizzarro edificio della televisione nazionale, mentre io ed Ale torniamo verso la tranquilla Hengshan, ma uno sbaglio di interpretazione della mappa ci fa vagare per un po' fra gli hutong senza nome, scorci di cortili stretti e di vecchi in canottiera e ciabatte, tricicli, ventagli e cani di piccola taglia, quasi sempre pechinesi o volpini. Una signora anziana canta in bicicletta, da un antro oscuro fradicio d'umidità arrivano voci concitate e profumo di soffritto. Luca si era ripromesso di scherzare a raccogliere ortiche per le strade di Pechino, in onore a Battiato, ma maggio è passato da mesi e non ne abbiamo trovate. Il giorno seguente, mentre gli altri continuano il tour classico andando a vedere la Grande Muraglia e le tombe Ming, io decido di proseguire dal lato meridionale di piazza Tienanmen fino al Tempio del Cielo. Il tragitto inizia da un largo viale pedonale attraversato da una monorotaia, ai lati boutiques dall'aria squadrata e pretenziosa. Un'arteria commerciale senz'anima che si perde in negozi sempre più anonimi, fino ad incrociare una trafficato stradone ad otto corsie. La camminata si prospetta non facile, le distanze a piedi iniziano a farsi sentire, soprattutto per l'afa implacabile. Cerco la direzione ad occhio, e dopo un po' mi imbatto finalmente nella cinta muraria del Tempio del Cielo. Si paga un ragionevole ingresso, e il parco all'interno mi consente una confortante pausa per rinfrescarmi dalla calura pechinese. Il tempo appena di asciugarmi, e vengo invitato da dei locali a giocare con un fresbee morbido che si prende con la testa e a palleggiare con una specie di volano: lo fanno tutti, bambini ed anziani compresi. Mi piacciono i vecchi cinesi, amano tenersi allenati e non si sentono ridicoli mentre fanno sport e si divertono. Il tempio in sè consiste in un insieme di edifici taoisti, dai simbolici tetti blu, in cui l'imperatore nel solstizio d'inverno veniva, seguito dalla corte, a pregare per il raccolto e per altri rituali astrologici. Basta sedersi su una gradinata all'ombra e stare ad osservare, le volte spioventi che osservano i secoli passare, due ragazzine giocano con il cellulare come ovunque altrove nel mondo, i padri di famiglia immortalano mogli e figlioletti con ogni scorcio possibile. Turisti frettolosi come noi, che portano a casa qualche ricordo e gigabyte di foto digitali. Dopo il Tempio proseguo verso il Mercato delle Perle, che a parte il nome altisonante, si rivela essere un palazzone con la merce suddivisa per piano, dove i singoli negozianti vendono al dettaglio elettronoca, abbigliamento, paccottiglie vari e perle.
Ora siamo nella stazione dei pullman ad attendere il bus con cuccette che ci porterà a Shangai.
Shangai
Il pulmann sembrava l'astronave di Avatar. Dopo 17 ore di
loculi criogenici, con l'immancabile grassone che russava come un
grizzly, siamo stati scaraventati nell'afa terrificante
dell'autostazione di Shangai. La veloce metro ci porta nel nostro
ostello nella Concessione Francese, il "Le Tour Traveler's Rest Youth
Hostel" al 319 di Jaouzhou Rd, carino e pulito, in fondo ad un
caratteristico lilòng. Dopo un pasto ipercalorico vicino alla metro, ci
concediamo un pisolino per riprendere le forze, per poi ributtarci nella
follia collettiva dell'iperattivo Bund. Con la metro scendiamo a People
Square e percorriamo Nanjing Rd., un'affollata via pedonale
fiammeggiante di neon, grattacieli, trenini per turisti, venditori di
orologi, panorami verticali di ledwall. Beviamo una Xingtao per
rinfrescarci, pur essendo sera la temperatura non scende sotto i 40
gradi, e l'umidità sfiora il massimo. Arriviamo fino allo spiazzo
panoramico sul fiume Huangpu , da cui si vede il Pudong in tutta la sua
magnificenza, grattacieli bizzarri davanti a cui passano battelli alti
come palazzi di neon galleggianti. La calca in alcuni punti è
opprimente, ci abbiamo fatto un po' il callo, riprendiamo la metro e
usciamo dall'altra parte del fiume, nel cuore della Manhattan di
Shangai, i palazzi illuminati ci sovrastano per centinaia di metri. Dopo
le foto di rito cerchiamo di salire sul Financial Centre, ma si pagano
150 yuan solo per accedere alla piattaforma di osservazione, dopo una
coda interminabile. Optiamo per la più attraente Jin Mao Tower, che
all'87esimo piano ospita il Cloud Bar. Per arrivarci bisogna cambiare
tre ascensori veloci come razzi, indirizzati da cortesi inservienti al
piano. La visione di tutta la città dall'alto e l'atmosfera rilassata,
valgono i 90 yuan del cocktail, tra l'altro un long island fatto a
regola d'arte. La cameriera, impeccabile e cortese, dietro nostra
richiesta su quale sia la zona della città in cui trovare un po' di vita
notturna, ci indica Heng Shan Rd. Il taxi ci porta per 30 yuan, e fra
locali e discoteche varie facciamo mattina. Qui senz'altro ci
avviciniamo a standard occidentali, anche per quanto riguarda i prezzi;
ma ne vale la pena, dopo tante settimane di ritiro spirituale nelle
province più remote. Numerosi i poliziotti e le guardie private che
vegliano sui ragazzotti brilli e le amichette che ballano.
Shangai - Expo 2010
La visita all'Expo di Shangai è un'esperienza che vale tutti i
160 yuan dell'ingresso. La nuova Cina mostra il suo volto più efficiente
e protagonista del futuro, con una struttura imponente e ben
organizzata. La calca, soprattutto nel padiglione cinese, è ovviamente
onnipresente, frequenti navette si spostano rapide fra un padiglione e
l'altro, scorrono i continenti e le costruzioni bizzarre delle singole
nazioni. Dopo un salto nello spazio neozelandese, facciamo uno speziato
pasto nel padiglione indonesiano e andiamo verso la zona europea. Per
accedere al cubo di vetro-cemento italiano c'è una coda mostruosa. Dopo
dieci minuti di spintoni e afrori sudaticci, un cuoco dello stand, fuori
a fumarsi una sigaretta, ci fa: "Ma che state affà, la fila coi
cinesi?" Saltata la fila, entriamo con lui e dobbiamo ammettere che
dentro è molto meglio di quanto appaia fuori. Una parete con un'intera
orchestra verticale, su un'altra vestiti d'alta moda. In una stanza, un
ulivo centenario sembra emergere dal pavimento spaccando i tasselli del
parquet. Per il resto, è un po' un susseguirsi di luoghi comuni (pasta,
vino, Ferrari), più una vergognosa esposizione di plasticacce di Alessi
& Co. Una scala mobile entra in una sezione di cartongesso della
cupola del Duomo di Firenze. In cima, l'aroma del ristorante ci provoca
una struggente nostalgia di casa, dopo settimane di riso, porcherie
piccanti e hamburger per tamponare lo stomaco. Dopo quest'ondata di
emozioni italiche, ci dirigiamo allo spettacolare riccio inglese, di cui
ogni spina di resina trasparente custodisce in punta il seme di una
pianta diversa, e sono migliaia, luminosi fili di vita. Memori della
recente esperienza di coda, ci dirigiamo verso l'ingresso per i
britannici, prendo da parte il tipo e gli dico "scusa, non sono inglese,
ma ti pare che posso fare una coda simile? Lui concorda e impietosito
ci fa passare. Dopo aver ammirato e plurifotografato la foresta di semi,
usciamo a riposarci sulla moquette grigia che circonda l'edificio, dove
veniamo simpaticamente assaliti da due standiste scatenate ed oversize
che, armate di fischietto, ci fanno ballare con loro ecc. I locali ci
osservano un po' allibiti. La giornata volge al tramonto, ci uniamo alla
fiumana umana che si dirige alla metro per tornare a casa. Quando
usciamo alla nostra fermata, Jing An Temple, una pioggia torrenziale ci
costringe a correre in ostello e rimanerci.
Hong Kong
Aereo per Shenzen, città appena oltreconfine per accedere a HK.
Raggiungiamo comodamente il terminal 2 del Hong Piao Airport con la
linea 2 della metro, la nostra. L'aereo ora sta partendo senza ritardo.
Ci stacchiamo da terra, l'inclinazione innaturale del decollo non mi
vede tra i suoi fan, ostentare sicurezza anche di fronte alle turbolenze
più squassanti. Locuzioni come "cedimento strutturale" mi tengono
impegnato durante il volo, come mantra negativi. Arriviamo fino a HK
senza problemi, Simon ci chiede come sia andato il viaggio, ci riserva
due monoloculi dei suoi dove sistemiamo i bagagli per il viaggio finale
verso l'Italia. (Quelli che, in viaggio, stanno in hotel a leggere
sulla Lonely quello che potrebbero fare se non stessero leggendo la
Lonely. Questo popolo, perlopiù, segue lo stesso tragitto, ha poco da
raccontarsi perchè han fatto tutti le stesse cose.) In serata
saliamo fino al The Peak con il tram che si inerpica lungo un cavo dalla
pendenza impressionante; la vista da sopra è spettacolare, ci
concediamo una birretta e delle polpette di granchio (una porzione in
tre, visto che i liquidi iniziano a scarseggiare). Il ritorno, per tale
motivo, ce lo facciamo con una lunga passeggiata nel buio dei boschetti
che circondano la collina, fra sentieri di alberi attraverso le cui
fronde si stagliano le torri luminose e l'immensa baia. Arriviamo alla
base sudati ma soddisfatti, per poi buttarci a capofitto nell'ultima
folle notte in questa elettrizzante megalopoli orientale.
Nessun commento:
Posta un commento