giovedì 29 novembre 2012

SUDAFRICA

Intro: ho lasciato il testo inalterato.
Gli autori sono DAVIDE MARCO ANDREA LUCA - Agosto 2005

Pretoria

Oh Dio, ce la sentiamo. Siamo in Sudafrica; stasera abbiamo passeggiato sotto un cielo di stelle mai viste. Siamo partiti male, due bambini sull'aereo ci hanno tenuti svegli. La posizione fetale e le turbolenze hanno fatto il resto. Dopo un viaggio che sembrava interminabile, siamo arrivati a Johannesburg.
Dopo 1000 peripezie, vedi sbattimento bancomat e vari tassisti abusivi, arriviamo da Motibi il quale ci promette subito il mondo, si fa i cazzi suoi x circa 5 ore e alla fine ci trova un alloggio presso Mamy al costo di circa € 8,50 cadauno ma.. ci é andata di stralusso. La serata si é conclusa con una pizza da Jean Pierre, dichiarato culo di Pretoria, e subito innamorato di Marco e della tuta di Andrea.
Le cazzate della giornata: - Andre si sveglia alle 6 di mattina e tira un rosario di bestemmie ad alta voce con 2 mamme davanti; - Alle 4 di notte sull'aereo ci siamo alzati tutti per la caldazza e ci siamo ritrovati davanti ai cessi a sparare cazzate. siamo riusciti anche a farci riprendere da una tipa perchè parlavamo ad alta voce; - Andre ha portato nel bagaglio a mano una boccia di alcool con questa motivazione: se faccio una doccia, incendio il fondo per disinfettarlo; - Andiamo al bancomat per ritirare e tra le linque, oltre all'inglese, ci sono lo zulu e lo swazi.. - Ci accalappiano due individui usciti dall'aeroporto per portarci in qualche strano posto e Luca gli dice: "aspetta, adesso ritiriamo i soldi e poi ti chiamiamo"; - Abbiamo ingoldonato le valigie a Linate e lo zaino di Marco sembrava lo scudo di Goldrake; - In aereo eravamo in maglietta con un megacaldo e Luca dormiva con paraocchi, felpa e copertina sulle gambe;
Le case dei bianchi, compresa la nostra, sono recintate da filo spinato a bassa tensione, allarmate, con cani assetati di sangue.

Nelspruit

Nelson, mettiti a posto. 20 anni di galera non sono serviti a un cazzo. Abbiamo trovato una città in cui le etnie sono ancora nettamente separate; abbiamo avuto un approcio trasversale che ci ha portato, in un pomeriggio, a passare repentinamente da un lato all'altro della società. Ma andiamo per ordine:
Appena arrivati abbiamo subito notato i forti colori che contraddistinguono questa città da Pretoria; poi abbiamo notato che la zona che stavamo attraversando era popolata solo da gente di colore: neanche un bianco. Ci siamo fermati e abbiamo affrontato un mercato pieno di gente, con la sconsapevolezza ingenua dei turisti. A parte un incontro spiacevole con un tizio che ci ha abbaiato qualche insulto che non abbiamo capito, l'esperienza si é conclusa nella totale indifferenza della gente della zona. Dopo ci siamo mossi verso un altro quartiere che ci é sembrato essere la parte bianca di questa città. Siamo entrati in un locale: gli unici neri erano i camerieri, a riprova che i retaggi delle divisioni passate sono ancora presenti. Forse non basta cambiare le leggi per abbattere i muri, ci vuole un intervento + focalizzato all'integrazione, ci vorrebbe, forse, una spinta coercitiva all'iterazione...
Abbiamo passeggiato nella parte nera della città, per strada delle tipe con un telefono appoggiato su una cassetta fungevano da cabina telefonica. -Ieri, un tipo che abita vicino alla "nostra" villa ci ha consigliato un itinerario, che più o meno coincide con il nostro. Abbiamo quindi noleggiato una macchina: una Chico (Golf 1* modello) blu elettrico, con il volante a destra. Cauto l'impatto con la strada e la guida a sinistra. Ha guidato Andre da Pretoria a qui. - Rapidi accenni all'ambiente: passiamo da giornate molto calde a notti fredde, grossa escursione termica. Animali strani ancora non ne abbiamo visti, a parte molti tipi di uccelli. - Fortunatamente la guida ci ha indicato un ostello crasto: paghiamo 70 rand a notte (meno di 10 euro) e dormiamo con una coppia di inglesi taciturni. Ieri abbiamo passato la serata con Dominique, il tipo italo-franco-sudafricano che sta con la tipa dell'ostello. Ha tirato fuori un paio di borse d'erba, siamo stati a chiacchierare e gremare fino a tardi, e a giocare a biliardo. Lui é maestro di un par de arti marziali, ha provato un paio di mosse letali su Maio. Quante ghignate, si vede che di ospiti inglesi ecc. ne ha piene le palle, siamo arrivati noi italiani a tirare su il macello. Oggi andiamo con la Chico al Blyde River Canyon. Mentre scrivo, un uccello giallo canta su un banano. Che altro? Alla prox.

Nelspruit

Dopo la serata passata in compagnia di Dominik, ci svegliamo ancora in svarione e decidiamo di partire per il Blyde River Canyon ma, forse per colpa dello svarione di cui sopra, ci siamo ritrovati a "casa di Dio" che ci aspettava affacciato alla finestra di casa sua.
Le cazzate del giorno: - La finestra di Dio, la foresta di Dio, il puntello con Dio per le nostre richieste, la penitenza di Dio a piedi nudi, il vibratore di Dio (il pinnacolo) - Il primo animale che ci attraversa in tangenziale: non un coniglio, non un riccio... una scimmia - In questo mi dissocio: la prima tipa carina che Andre e Davide hanno lumato. La chiameremo canotta bianca ("Mamma che tettine, chissà com'é: tetta nera e capezzolo bianco") - Ieri sera io e Andre in camera con le due mummie inglesi sentiamo un rumore nettamente ambiguo.. fortunatamente Luca si stava solo lavando i denti. - Il canyon della riconciliazione bello ma corto... dovevamo fare un'escursione a cavallo. - Importante come cosa: abbiamo provato a distruggere un nido di termiti alto 1 metro ma non c'é stato verso, abbiamo provato a calci ma a malapena lo sbriciolavamo. - Andre: "Vorrei essere in una bidonville pettine (7 stelle).. ma sotto un'altra forma, non umana". La scusa è che ha bevuto un Cuba.

Lasciando Nelspruit

Ci siamo svegliati e fuori pioveva, proprio oggi che ci avviamo verso il Kruger. Cielo grigio plumbeo. Stanotte in stanza avevamo Chernobyil e una ragazza, una ricercatrice di Berlino che é qui per lavoro. Andrea ha rinunciato a diventare Robinson Crusoe e si é fatto la barba. Abbiamo poi lasciato il Funky Monkey e siamo in viaggio per il Kruger. Kruger Park: 3 facoceri per strada; gazzelline(capre); giraffa; zebre e impala; Rino!; antilopi zebrati con la gozza; elefanti; babbuini; leoni; coccodrillo; ippopotamo; gufo; iena; gnu.

Parco Kruger

Stiamo vagando per il Kruger alla ricerca di leoni e leopardi, che sono i due dei big 5 che ci mancano. Abbiamo appena visto una famiglia di elefanti che fa il bagno e un gruppetto di scimmie che sono venute a scroccarci pezzi di mela. Solo i felini predatori non si fanno vedere. Con questa caldazza sarà dura. Saremmo dovuti arrivare prima, stamattina Fulmine ci ha svegliato tardi. Fulmine é il nostro ostellante, ma ne parleremo dopo, ora siamo troppo occupati negli avvistamenti. Marco sta facendo il richiamo della leonessa zoccola e sterile. Sembra più una leonessa tranvaz.Perle: "Secondo me, se ci facciamo i cazzi nostri sulla principale il leone ci attraversa la strada". I pipistrelli me piacevano de più.
Darryl, il nostro ostellante, ci ha accolto con una pettinata di birra. Quindici anni fa ha mollato il colpo nello Yorkshire e si é trasferito qua. E' molto accogliente. Ieri sera siamo usciti con Richard, un piccolo nero scatenato del Malawi che ci ha portato a tazzare. Swaziland is different, là guardi le tipe e ti innamori, Luca is the Godfather, Davide mafioso, Marco bambino. Ci ha presentato tre baboons nel locale ma non ce la siamo sentita. If you sprinkle when you tinkle, be a sweetie, wipe the seatie.

Swaziland... is different

Dopo l'accappatoio e lo sbattimento frontiera (una giornata per fare duecento Km) siamo arrivati nella capitale. La Wild Fronteer é stata da delirio e ci ha salvato una sciura che si é scatenata in swazilandese. Ci ha rimandato indietro sulla giusta strada. Siamo scesi tra minatori e pastori (bella vita de merd) fino alla capitale che é un posto inutile. Vabbé andiamo a Manzini. Mixo's, ma a'rocaz stai? (grazie Darryl). Chiediamo a Tony Mafia dentro al Big Surprise Bottle Store e rimbalziamo di nuovo in città. E qui la quindicenne di ebano ci fa sballare Andre ("Oh ce l'ho duro, adesso glielo butto nel culo mentre lava il pavimento"). Dormiamo nella zozzeria e partiamo presto per Sodwana Bay, uno dei posti più belli del Sudafrica (mitica Lonely...mavaffanculo). Qui a Rabbinopoli per tutto devi pagare e pagare la tassa. Primo giorno di bagni e prima volta di Marco in un oceano.. Bella Prenotiamo l'escursione per lo snorkeling: "Avete le bombole?" - "No" "Il reef è a 10 metri, sapete andare in apnea?" - "No" "Ok allora facciamo un giro, avete la maschera e le pinne?" - "No, abbiamo la maschera ma non le pinne" "Vabbé, vi porto a vedere i delfini.."
- In assenza di fighe, siamo indecisi se flambare il culo di Luca o usare quello di Andre già pronto. - Dobbiamo importare in Sudafrica: 1) Rhum come Cristo comanda; 2) Materassi; 3) Lavandini col miscelatore. - Andre:"We want to sleep here...NOW!" Anche qui a Sodwana la topa latita, ma noi non perdiamo le speranze.
Questa mattina, dopo la lavanderia, siamo riusciti anche a lisciare i delfini (unico sbattimento della giornata). Al ristorante: "Do you want a Booeroswurst?" Questa è solo una delle figure di merda che ho fatto, ma con il mio inglese sono riuscito ad arrivare fino a qui sano e salvo. Tutto procede a meraviglia, le compere di oggetti locali anche ma sorge il problema: dove cazzo mettiamo tutta questa roba? La Chico non offre molto spazio, pensavamo di eliminare la ruota di scorta ma dopo vari tentativi abbiamo desistito; quindi passiamo il nostro tempo bevendo Cuba di merda e giocare a scopa d'assi come i pensionati di una bocciofila. Domani é il giorno di St Lucia; vedremo cosa ci riserva questo luogo misterioso. Non vediamo l'ora di abbandonare questo posto solo x il fatto che ad ogni richiesta da noi fatta, ci vengono subito addebitati sulla carta di credito di Maio 100R (one hundred cazzi).
Studiamo il lenzuolo, misurando a falangi la distanza dal Lesotho. Le strade per entrarci sono segnate a puntini. Ci sono zone che dovremo fare "in carena" (o "a uovo"), xché l'amico Fritz a Pretoria ci ha sconsigliato. Domattina andremo a vedere gli ippopotami e i coccodrilli. Luca se la sente: dopo il Lesotho propone il deserto! Ormai lo abbiamo perso.

Verso Durban

Stamattina siamo andati in gita in barca, sull'estuario del Black Umfolozi. Un coccodrillo ci é passato sotto la barca, varie famiglie di ippos pozzavano qua e là. Sulla strada per Durban, siamo stati fermati da uno sbirro con l'autovelox che voleva farci 700 cazzi di multa. Gli abbiamo detto che in Italia il limite é 150. Andrea:"Excuse me, today is possible to close the eyes?" Alla fine lo sbirro si é fatto mollare 120 cazzi sottobanco. Come in Italia, anche qui il motto nazionale é "Tengo famiglia".

Leaving Durban

Ascoltando Bob, su una highway che si snoda tra colline verdi e gialle, canne da zucchero e alberi della pioggia. Direzione Jeffrey's Bay, mecca dei surfisti. Everything's gonna be all right. Durban era troppo caorica. Abbiamo visitato il mercato indiano, niente di che, a parte un paio di "stregoni" che vendevano pelli e ossa di ogni genere per curarsi. Alla sera siamo andati in Morningside, la via pettinata dove tazzare. Dopo un paio di rimbalzi, siamo entrati di prepotenza in un locale, dove le cameriere ci hanno fatto sbavare. Con noi c'era anche Stefano, un viaggiatore solitario conosciuto in ostello. Dopo tre bonze di bianco, siamo tornati verso casa. Sotto c'era Sonya, la tenutaria del bordello, che ci ha proposto un par de ragazze. Non ce la siamo sentiti. Alla nostra sinistra, ora sull'autostrada, vediamo spiaggie spettacolari e deserto, ma siamo fermamente decisi a correre verso i pinguini.

East London

Dopo una macchinata, che ci ha scassato, attraverso Fezziland (il Transkei), siamo arrivati in questa cittadina sull'oceano. Fa freddo. Siamo in un ostello di surfisti, cioé il posto meno adatto a noi. Di fronte all'oceano, abbiamo anche una torretta di avvistamento. Ieri sera, dopo aver mangiato du spaghi al ristorante, siamo andati al Bucaneer, il locale più trendy di qua. Lì abbiamo ribeccato i camerieri del ristorante, un tipo ed una tipa, che ci hanno mandato degli shot di colluttorio, che abbiamo ricambiato. E' nata la simpatia, (Luca si é innamorato dopo che lei gliel'ha strisciata sul ginocchio) e i tipi ci hanno invitato a casa loro, immediatly. A fare che? A consumare, ognuno secondo le proprie preferenze. Fatto sta che siamo tornati dopo lo 3, 'tacci loro. Stasera al locale dovrebbe esserci un concerto, con relative fichette danzanti. Vedremo, male che vada ci ributtiamo a casa del tipo. - Abbiamo vinto due birre al biliardo contro Mandisi e Pingu; - Io e Pode abbiamo accompagnato il tipo nel quartiere nero per prendere da bere. Lui é entrato in un locale di neri scatenati da cui non pensavamo sarebbe uscito mai più; - Oggi abbiamo visto i surfisti, volevamo ridicolizzarli ma Luca ha detto che non c'era il vento giusto. - Domani dovremo essere a Jeffrey's Bay... - Cuba a 1 euro!

Jeffrey's Bay ! (addio Desolation Valley)

Decision moment: andiamo a J Bay o andiamo alla Desolation Valley??? Vabbè decidiamo al bivio, ora mangiamo da JFK.
Ci accoglie Miss Simpathy e partiamo bene. In compenso l'ostello é il più pettinato; serata in cerca di ravioli. Andiamo a mangiare e ci serve il cameriere surfista (capello lungo, aria scazzata, camminata ondeggiante): "Scusate, mi sono dimenticato cosa avete ordinato". Si fa perdonare facendoci trovare una Jolla nel conto..bella.
La mattina a J Bay si é divisa tra finale di rugby con gli Springbox e shopping smoderato per i negozi di surf in cerca di cazzate di ogni tipo e dimensione.
Luca prende possesso della Chico e ci porta dritti a Outsdoorn, detta anche "Struzziland". Trovato l'ostello andiamo a cena e notiamo che oltre agli struzzi ci sono una cifra di chiese e anche l'architettura cambia; c'é un misto di Olanda e Bretagna. Il giorno seguente ci rechiamo nel "Buco del culo" delle montagne che ci circondano e + precisamente facciamo visita alle Kango Caves. Subito dopo andiamo a vedere uno dei passi (Soderberg pass) indicati dalle guide in nostro possesso ed il panorama che ci attende é a dir poco spettacolare. Luca Marco e Davide decidono di godere di tutto ciò da una posizione di maggior prestigio e "scalano" una cima. Dopo tutta questa fatica si va a pranzo e ci siamo scatenati ordinando 4 specialità diverse in modo tale da fare 4 piatti misti: Marco:coccodrillo; Davide:struzzo; Luca:kudu; Andrea:Springbok.
Le nuvole che ammantano lentamente le cime delle montagne attorno a "Die Top"e, forse, una musica che arriva da lontano.

Arniston/Bredasdorp/Hermanus

Dopo la magia montana, ci avviamo fiduciosi verso Arniston, tranquillo villaggio di pescatori. Il viaggio attraversa una landa tipo Scozia, e il tempo inclemente non migliora le cose. Arriviamo quindi a serata inoltrata ad Arniston, non prima che Andre abbia stirato un coniglio per strada. Arriviamo in un hotel pettinato e vuoto, dove il caso vuole che ci diano la camera numero 17. Ceniamo in un posto della madonna, pesce e vino da paura (riserva privata 2004). Poi un Cuba sul bancone-acquario. Quindi... Andre se la sente di guidare fino all'ostello. lungo la strada vediamo delle luci che ci sembrano essere quelle dell'ostello. Andre fa un'inversione a U su una tripla striscia continua. Da qui in poi, il delirio: nello stesso istante, in direzione opposta me s'arribbarta 'a volante. Uno sbirro, senza apparenti motivi e ad almeno 50 m di distanza, si esibisce in un doppio carpiato avvitato con il suo furgoncino. Luca e Marco, esempi encomiabili di senso civico, ci fanno fermare per prestare soccorso. Tempo 2 secondi arrivano due pattuglie di sbirri neri e a fucili spianati, che ci urlano: "Who's the driver?"; Noi nell'ordine: Davide: tenta il record del mondo a Pacman; Luca: pensa intensamente ad Elena; Marco: finge di cercare le lenti a contatto per terra. - non sento una vocina... stritula stritula... Andrea timidamente azzarda un "I" pronunciato "Ahi"... Viene immediatamente spintonato in una volante, mentre noi subiamo un attacco laterale da parte di piranha-baboons della township, che pensano che la macchina fuori strada sia uno di loro, e accennano ad un linciaggio. Davide raggiunge Andrea e vede la volante ribaltata in un fosso e pensa alla fuga nelle risaie. Macelli vari, ospedale, tipo fezzato, esami del sangue, centrale di polizia, interrogatori, impronte digitali, ecc. Paura diffusa. Notte insonne, mattina dopo processo che salta a giovedì 25 perché Andrea "doesn't understand". Contattiamo un avvocato d'ufficio che ci tranquillizza, dicendo che nella peggiore delle ipotesi Andre caca 5 leopardi (o buste sgrause). Scappiamo da Bredasdorp e arriviamo a Hermanus, dove un ostello pieno di fighe e le balene ci fanno pensare ad altro. - "A balena coll'arcobaleno? - Cellò" Andrea al processo, dopo una supercazzola del giudice, si gira fiducioso verso gli amici x una traduzione, ma vede tre maschere di cera (Davide gioca a Pacman). Dopo questo triste esordio, veniamo allontanati dall'aula. L'argomento del giorno é lo sbirro carpiato e il calamaro ring di Andrea al centro della sua pesca. L'avvocatessa ad Andre, dopo che gli aveva detto che aveva bevuto e ribaltato lo sbirro: "No problem".
La mattina successiva, come prodi intrepidi esploratori, siamo andati verso il nostro destino: una gabbia nel mare con squali. Ci siamo spostati nella cittadina vicino ad Hermanus, dove si pratica questo allegro sport. Ci ha accolto la moglie di capitan Nemo (Moby Dick). Abbiamo dovuto aspettare l'arrivo dei nostri compagni d'immersione x poter salpare verso il puntello con i cari pescetti. I nostri amichetti non si sono fatti attendere, così capitan Nemo ci ha buttato in acqua abbaiando "Shark, right, left". Dopo l'immersione c'é stata un'epidemia di mal di mare che ha costretto alcuni di noi (Luca e Marco) alla pizzata violenta. Score: Luca ||| Marco | I nostri compagni di avventura: Pitbull, Big Boops, Salvagente/Poldo, Sveglione, Panic-Ok Panic, Scimmia lancia sandwich. Appunto Giangi (di Verona): Ué.. ho visto il leopard nella riserva privata... ora vado a farmi una bella doccietta al resort perché non si sa mai quale animale ha indossato queste mute... Dai Marchino, che dobbiamo andare, ma sapete che ho fuso la Megane.."
Serata introspettiva con 50enne assetata "Wild Fronteer" che abbiamo respinto con una dura guerra di trincea. Giorno seguente (24 Agosto) decidiamo di muovere alla volta di Cape Town. La decisione sofferta é stata risolta a schiaffi e pugni: 

Cape Town ( la terra promessa)

Città frizzante.. clima temperato.. pettiniamo subito: aeroporto/ostello/ebanate. Al mercato ribecchiamo Stefano con cui ci diamo un puntello x il giorno successivo (processo permettendo). Dopo aver assaggiato due ore di clima capetowniano battiamo subito ritirata verso Hermanus x una seconda serata introspettiva, ultima prima del processo.
H. 6,00 Sveglia H. 7,00 Partenza per Bredasdorp... Arriviamo alle h 8,30 in Tribunale, c'erano tutti, mancava il mio avvocato - ok panic. Attesa snervante in cerca/attesa dell'interprete e dopo 2 ore di rosolamento duro appare, in un'aurea di luce Fred che ci dice: "In verità vi dico: di chi é la Chico blu?". Lui era il ns. Salvatore. Sbattimenti vari x capire cosa stava x accadere e dopo 3 infarti il giudice ha dichiarato: "Il caso é cancellato". Dopo siamo stati ospiti del Messia e delle sua famiglia, che ha moltiplicato e mandato pani e pesci (ma poco vino). Visita a Cape Agulhas, sigaretta foto e via + veloci della luce verso il delirio di Cape Town. 

Cape Town - After the process

Arriviamo che già bruneggia, ma abbiamo voglia di scorrazzare con l'amico Durbans per le vie della città. In ostello recupero Mafalda, e quella che Marco sostiene di avere limonato poi. Due ragazze inglesi assai compiacenti. In 6 nella Chico raggiungiamo Stefano Durbans per andare a mangiare da Mama Africa, da cui ci rimbalzano e finiamo al Zula. - scariche di Cuba e vino a fiumi; - Complesso complessato che prova l'audio tutta la sera ( peace & love, check-two, twenti rand); - Il rastone che caca la busta d'erba dal turbante; - Lasagne vegetali e fuffe varie. Fuori dal ristorante vaghiamo tra i locali della long street, attratti come falene dalle luci e dal pelo. Quindi dopo la cena al Zula finiamo in una disco-sala biliardi dove facciamo chiusura, la psicopatica a guardare giù dal balcone mentre Andrea la molestava. Arriviamo semifradici. 

Cape Town

Giornata naturista, ci instradiamo lungo le penisola per raggiungere il Capo di Buona Speranza. Arriviamo là con un tempo da lupi, di mare, che manco B.Diaz. Grandine, vento a 80 nodi, furgonata di cinesi che scattano foto. Onde incazzatissime. Raggiungiamo la vetta del Capo, prima di andare a mangiare, con le note di Papa Wemba e le balene nel mare sotto di noi che limonavano. Torniamo fradici alle macchine e ci fermiamo a Simon's Town a vedere e molestare una colonia di pinguini. Alla sera riusciamo finalmente a mangiare da Mama Africa, tra gli sbongoloni. 

IMPRESSIONI FINALI

Il Sudafrica è un paese che offre innumerevoli possibilità di esperienze e scenari, e gli italiani sembrano accolti con particolare entusiasmo!. E'adatto a tutte le tasche: anche i routard più accaniti possono trovare alloggio a buon mercato; ma costa talmente poco che non vale la pena fare troppa economia. Chiaro, se vi infilate nel villaggio "all inclusive", poi non lamentatevi se vi spennano! Se non si parla un po' di inglese la comunicazione è dura. Il paese, almeno nelle sue tratte più battute, è abbastanza moderno, ma basta poco per lasciare la strada principale e ritrovarsi in villaggi dove la gente ti guarda spaesata. Si mangia come leoni, roba sana per pochi spiccioli. Conservando gli scontrini dei nostri acquisti, prima di ripartire, in aeroporto ci siamo fatti restituire l'IVA; è stata un'esperienza unica veder tornare indietro dei soldi di tasse. E' un Paese adatto anche alle coppiette che vogliono il brivido dell'Africa senza rischiare troppo. La gente, almeno quella che abbiamo incontrato noi, è sempre stata molto ospitale e curiosa, soprattutto lontano dai "punti di smistamento" dei turisti. Per quanto riguarda la pericolosità di certe zone, basta usare il normale buon senso. Non cercate guai e non ne troverete. Evitare di viaggiare di notte sulle statali, specialmente nel Transkei, almeno così ci hanno consigliato. Anche le zone a confine col Mozambico vanno affrontate con cautela. A noi non è successo niente, ringraziando la Madonna, ci siamo divertiti senza avere (quasi) mai problemi. Il clima: noi siamo andati ad agosto, il nord del paese era caldo e soleggiato, mentre più si scende e più il clima, pur sempre asciutto, diventa freddo; per arrivare a Cape Town dove, la sera, un maglione e una giacchetta sono indispensabili. Il nord del paese è fatto di paesaggi tipicamente africani, mentre il sud mi sembra la Scozia, pur non essendoci mai stato. Salute: antimalariche e vaccini strani non sembrano necessari, a meno di andare in remote zone paludose. Forse non sempre le condizioni igieniche sono encomiabili, quindi magari un antiepatite. Comunque, le città più grosse sembrano avere strutture ospedaliere rassicuranti, a patto di avere soldi sonanti o un'assicurazione convincente. Vista la preoccupante situazione HIV in questa zona, non prendere precauzioni adeguate rischia di trasformare una trombata in una roulette russa.
Lasciate solo orme e portate via solo ricordi. Buon Sudafrica.

VENEZUELA

Caracas

Dopo il solito volo interminabile in compagnia di bambini molesti, arriviamo a Caracas circa alle 10 di sera. Fuori dall'aeroporto, stuoli di tassisti abusivi e non, ci importunano per la corsa e per cambiare i soldi. Essendo già buio, l'opzione autobus per raggiungere la città non la prendiamo neanche in considerazione. Non vorremmo arrivarci con una mano davanti e l'altra dietro. Scegliamo un tassinaro dall'aria e dal mezzo affidabile, la cifra notturna che riusciamo a spuntare è 140 bolivares, e decidiamo di condividere il viaggio con una coppia di spagnoli un po' ronciosi. Caracas si presenta, nell'estrema periferia, come una serie di colline illuminate da migliala di piccole luci. Sono i barrios, agglomerati urbati dei più poveri, casette di mattoni che si inerpicano sui pendii quà e là ancora boscosi. Poi, l'autopista raggiunge la valle della capitale, la taglia in due, i barrios lasciano il posto a grattacieli-dormitorio, per poi raggiungere il centro dove diversi palazzi moderni danno un po' di lustro a una città malconcia. Proviamo a cercare un hotel in zona Altamira, ma presto rinunciamo poichè sono tutti pieni. Ne troviamo uno poco distante, si chiama El Escorial ed è sufficientemente insapore per esordire a Caracas. Una doppia ci costa 60 dollari. L'autista si offre anche di cambiarci i soldi, una volta arrivati in albergo. Ad agosto 2008, la situazione del cambio in Venezuela è questa: in banca per 1 euro vi danno 3 bolivares, sul mercato nero ve ne danno quasi 5. Decidiamo di uscire a fare due passi, nonostante la zona non sia delle più rassicuranti, spinti dalla fame. Il portiere, dopo averci messo in allerta su criminali e poliziotti corrotti, ci indirizza verso un posticino di fiducia. Infatti, lo scopriamo presto, vi cucinano le più immangiabili arepas di tutta la nazione. Torniamo in hotel un po' sconsolati e affamati. Prima di andare a letto, fumo una sigaretta sul pianerottolo dell'hotel, affacciato al balconcino. Di notte Caracas, anche se è brutta, è affascinante. Mentre sto rientrando, mi accorgo che dalla camera di fianco si è affacciato un travone, guarda la città pure lui. Il riposo è pesante e senza sogni. 

Choroni

Viaggio da Caracas (stazione La Bandera, circa 5 euro) fino a Maracay in autopista, poi verso Choroni con un autobus coloratissimo che si arrampica sui tornanti, salsa a tutto volume e imponente clacson a corda. La stradina passa in messo a montagne e foreste, spesso quando incontriamo qualche mezzo che arriva in senso opposto dobbiamo fare più manovre per passare entrambi. Ci addentriamo nel parco Henry Pittier, riserva naturale, per un'ora saliamo fino alle cime nebbiose, l'ora successiva scendiamo verso il mare. Puerto Colombia, a pochi minuti da Choroni, è un piccolo paese di pescatori, ma è anche meta del turismo balneare venezuelano. Sono rari gli occidentali in giro. Cerchiamo un hotel sotto il sole cocente, ma non ne troviamo, per il weekend sono tutti pieni, una serie interminabile di cartelli "Todo completo" e "No hay habitaciones". Alla fine, in una vietta un po' laterale, troviamo una posada molto "rustica" (una ludreria) per 20 euro a notte. Il paese consiste in un vialetto centrale di un centinaio di metri in cui si radunano ristorantini e posade, oltre al mercato del pesce. Riconoscete gli uomini del posto perchè alla sera si avviano verso casa con un piccolo tonno, o tre aringhe, in mano. Attorno, viette con abitazioni e posade magari meno in vista ma non male. Il porto è veramente a dimensione umana, con immancabili vecchietti che giocano a domino e bancarelle di piccolo artigianato. Fra le spiagge vicine, la più popolare è senz'altro Playa Grande, raggiungibile con 10 minuti di passeggiata. E'abbastanza affollata, la sabbia è superba, un chilometro di palme interrotto dalle alture a est. Ci dedichiamo ai primi bagni e ai primi texas hold'em. La tecnica di approcio alla spiaggia del venezuelano medio è arrivare con una cava, ossia una cassa di polistirolo isolante piena di hielo (ghiaccio), alcolici, cibo, bibite; per poi spaparanzarsi sotto l'ombrellone e dedicarsi a qualche bagno rinfrescante. Nessuno nuota, i più arditi galleggiano dove l'acqua è più alta. Alle quattro e mezza i bagnini fanno uscire le gente dall'acqua, la spiaggia "chiude". Alla sera, ceniamo in uno dei ristoranti al porto, un enorme pesce chiamato pargo con un bel contorno e un paio di cuba fatti col Santa Teresa.

Puerto Colombia

Dopo una colazione a base di banane, ci siamo diretti al Playon per passare l'intera giornata al mare. Era gremita, le onde erano alte anche un paio di metri e ci siamo divertiti un sacco a sguazzarci dentro e a fare "human surf" come alcuni ragazzi del luogo; i bagnini-Collina fischiavano come dei pazzi. Notiamo che nel pezzo di mare di fronte al centro della spiaggia, c'è una corrente abbastanza forte che porta fuori, decidiamo di starne alla larga prima che ci ritrovino ad Aruba. Abbiamo conosciuto dei ragazzi di Caracas e Macaray, fra cui Rosangela e Clarissa. Erano fornitissimi, ci hanno offerto da bere e ci hanno invitati a contattarli quando torneremo a Caracas. Loro il weekend prossimo vanno a Morrocoy, dicono che è molto più bello di qua. Vedremo. Dopo la giornata al mare, cerchiamo un internet point, per comunicare a casa e agli altri in arrivo che siamo vivi. Dopo le comunicazioni, torniamo in posada a fare un sonnellino, visto che i cavalloni e il sole cocente ci hanno un po' sfiancato. Per cena, visto che stiamo spendendo troppo, ci accontentiamo di una hamburgesa (gigante con todo). Poi, il piccolo porto si anima di bancarelle, dei ragazzi neri suonano il bongo e ballano, la gente tiene il tempo e viene invitata ad unirsi alle danze. 

Puerto Colombia

Altra giornata sul Playon. Vinciamo la naturale riluttanza ad aprire il portafoglio e prendiamo un ombrellone e due sdraio, per evitare di flambarci completamente, per ora siamo di un rosso sotto controllo. L'acqua è un brodo azzurro limpido, puoi nuotarci dopo mangiato senza neanche fare il ruttino. Le onde spettacolari ci tengono impegnati. Ogni 10-15 onde turchesi, ne arrivano 1-2 di un blu cupo, alte almeno un paio di metri in cui o ti tuffi, o tenti di cavalcare abbracciandole, come fanno i ragazzi del luogo. Dal mare arriva una brezza fresca che ci concede una pausa dalla calura; diversi uccelli volano sopra la baia, principalmente stormi di pellicani e dei rapaci con la testa lunga e bianca. Il sentiero che va al Playon è costeggiato da mini-negozietti e ristoranti seminterrati sul ciglio. Passando in una traversa del porto ci facciamo accalappiare da un moderno lounge-bar, dietro la promessa di un ottimo cuba, e da lì allo stuzzichino il passo è inevitabile. Diventerà la nostra cena.
Passiamo la serata nella piazza del paese. Per il nostro aspetto inconsueto (alti e biondi) raduniamo attorno a noi un folto gruppo di persone, che ci chiedono dell'italia, del milan, di cosa pensiamo del venezuela, ed insistono per fare delle foto con noi. Le mille domande ci danno l'occasione di parlare un po' di spagnolo. Verso mezzanotte decidiamo di fare un salto al Bar Rumba, ma è semivuoto. Dopo la serata di mondanità paesana, torniamo nella nostra piccola camera, dove le zanzariere ci proteggeranno dagli insetti che popolano la notte tropicale. 

Chichiriviche

Il viaggio da Choronì a Maracay è il solito delirio di curve e musica caraibica. Verso la fine del tragitto, in discesa, il motore fonde, fa dei rumori brutti e inizia a buttare fumo. Facciamo gli ultimi tornanti in folle. Alla stazione degli autobus di Maracay, siamo obbligati a cercare qualcuno che ci cambi dei dollari, perchè le nostre scorte di bolivares stanno finendo. Un tassinaro ci dirotta in una gioielleria all'interno, vicino ad un bar con l'insegna verde, dove ce li cambiano a 3, abbastanza onesto. Chiaramente, non sembra il posto migliore dove girare con mazzettine di dollari, ma non abbiamo alternative. Dopo qualche tentennamento, compiamo l'operazione (tra l'altro, il gioielliere ci inonda di banconote da 20 bolivares, per cui abbiamo buste di denaro tipo narcotraffico da nascondere). Ora siamo fermi sul bus, in attesa di partire per Chichiriviche. Ci saranno 45 gradi, siamo perlati. Degli ambulanti salgono per vendere acqua e snack, ma noi ora vogliamo solo partire verso ovest. La strada non è molto panoramica, sulla sinistra barrios, raffinerie ed oleodotti, sulla destra il mare che è un susseguirsi di palme e spiagge un po' sudicie.
Chichiriviche si presenta più grande e turistica di Puerto Colombia, un lungo vialone che finisce sul lungomare, negozi di articoli da spiaggia (i cui manichini hanno tutti la sesta di reggiseno), ristorantini e liquorerie; ai lati, stradine non asfaltate dall'aspetto un po' vissuto. Il molo non è molto grande, vi si affacciano un paio di ristoranti e c'è un piccolo mercatino di bancarelle. Chiediamo in giro dell'hotel Milagro, ci mandano alla Licoreria Falcòn. Qui una scena bellissima. Chiediamo al proprietario quanto voglia per una doppia, lui ci dice 100 bolivares; alchè, un ubriacone presente (che diventerà il nostro capitano per le gite in mare) alza le braccia e dice "OOOEEEE!!!", come a dire, ellamadonna che ladrata! Il proprietario lo incenerisce e gli dice "Cerra tu boca, cavron!" Alla fine spuntiamo 80, ci fa entrare da un accesso fra le bottiglie del magazzino, la camera non è male, scegliamo una stanza al secondo piano che gode di un accesso alla terrazza, da cui si ammira un panorama niente male. Ceniamo al molo, un acquazzone improvviso sceglie il ristorante per noi, spaghetti allo scoglio e il peggior cuba libre della mia vita. Per rifarci la bocca, andiamo ad un bar davanti al nostro hotel. Incontriamo Danilo, il componente romano che quest'anno s'è aggregato ai lambratesi, che sciabatta per la strada. A mezzanotte il paese è già vuoto, sul lungomare c'è solo qualche ubriacone e dei ragazzini, qualche auto con la musica a palla gira per il paese. 

Chichiriviche

Dopo un sostanzioso desayuno (colazione), americano per me e criollo (con fagioli) per gli altri due, ci organizziamo per la gita all'isola di Cayo Sombrero. Rincontriamo Reggae, l'ubriacone dell'hotel Milagro, che è capitano di una piccola barca; la affittiamo assieme a un gruppo di tedeschi. Mentre viaggiamo, Reggae biascica, ride e si spulcia un po', ma è simpaticissimo. Mentre beve la sua Polar ghiacciata, ci indica le varie isole e baie che stiamo sorpassando, prima di lanciarsi in una gara senza speranza con un'altra barca. Arriviamo a Cayo Sombrero, l'isola è da cartolina, spiaggia bianca purtroppo un po' sporca e affollata. Ci avviamo sul sentiero fino ad arrivare ad una spiaggetta un po' isolata, cercando riparo dal sole sotto le palme; solo un pellicano si tuffa qua e là per pescare. La barriera corallina in sè non è bellissima, di colore marrone, ma i pesci che vi abitano sono tanti e coloratissimi, calamari, spugne fiorite che si chiudono al passaggio. Quando esco dall'acqua, per una inspiegabile illusione ottica vedo Marco e Danilo che si baciano, ma in realtà loro sono dietro, è un'altra la coppia che si abbandona alle effusioni acquatiche. Cerco di prendere un grosso granchio, che mi pinza facendomi un taglio. Quando lo catturo, lo mettiamo sul ramo di un albero, e Danilo inscena una gag ai danni di un gruppo di spagnoli che poco dopo vanno sotto l'albero. Dice loro che si tratta di un pericoloso granchio degli alberi, e loro prima se ne allontanano spaventati, e poi gli fanno parecchie fotografie, non accorgendosi che è una bufala da spiaggia. Hanno letteralmente preso un granchio. Quando il sole inizia a calare, cioè verso le 4:30, inizia l'attacco dei temibili puri-puri, dei moscerini che pungono ininterrottamente facendoci ballare il ballo di San Vito per scacciarli. Siamo costretti ad aspettare Reggae in acqua, fuori solo con la testa. Il capitano, meno sobrio che mai, arriva però puntuale all'appuntamento e ci riporta a terra sani e salvi. Cena al molo con fritto misto, serata fra bancarelle e ragazzine che vogliono farci la foto, e poi a nanna. 

Chichiriviche

Ci svegliamo al solito ritmo martellante di salsa e musiche caraibiche (amor, pasion y corazon). Danilo: "Aò, chiedije se po' arzà che nun se sente bene!". Ne approfittiamo per andare in terrazza a lavare qualche panno sporco. La città, vista dal tetto dell'hotel, appare per quello che è: a parte il molo, un agglomerato di edifici insignificanti e un po' degradati, cani randagi e cisterne arrugginite. E' però un'ottima base per girare le isole attorno. Il cielo è solcato incessantemente da delle specie di rondoni grossi come gabbiani. Per la navigazione ci affidiamo come sempre a Reggae, che fra i vapori dell'alcool si dimostra affidabile e competente nel portarci nei posti più belli, fra cui una laguna di mangrovie, una piccola baia di acqua bassa chiamata "la pisina", e altri. Alla sera, dopo due panini giganti e il solito giro di bancarelle, ci informiamo per arrivare alla discoteca "la India" (la disco que te mueve), appena fuori dal paese. Dicono che in settimana è vuota, e ci sconsigliano di andarci a piedi perchè la strada è buia e malfamata. Mentre io e Marco ci abbandoniamo ad un pigro Cuba Libre, Danilo si sbatte e recupera un individuo discutibile che si offre di accompagnarci con la sua macchina. Prima però insiste per farci conoscere due sue amiche molto belle che, nonostante le sue smentite, sono evidentemente due mignotte. Di fronte al nostro educato disinteresse, si rassegna a portarci alla India che, come previsto, è deserta. Per cui torniamo nel peggiore bar di Chichiriviche, dove rincontriamo le due ragazze. Beviamo due Polar, e poi torniamo al molo, dove tiriamo tardi con i vari sbiasciconi punkabbestia di cui la città inspiegabilmente pullula; dev'essere una specie di luogo hippy. "el Chile es bonito y donde y sbla sblah..". Domani partiamo per Caracas per incontrare Luca e Andrea e dirigerci verso sud, verso Ciudad Bolivar.

Ciudad Bolivar

Dopo aver beccato gli Luca e Andrea alla stazione orientale dei pulman ( e dopo aver fatto loro uno scherzo, cioè aver mandato uno a nome nostro a dire che dovevano tornare ad Altamira, da cui arrivavano), siamo partiti con un Bus Ejecutivo verso Ciudad Bolivar. Qui, questi grossi e comodissimi autobus li chiamano aviones para la tierra, in quanto per accedervi si fa un vero e proprio check-in con tanto di perquisizione e metal detector. Il viaggio notturno di una decina di ore, a parte il condizionatore, è stato abbastanza confortevole, i morbidi sedili reclinabili ci hanno consentito di dormire per quasi tutto il viaggio. Arriviamo in città verso le 8 di mattina, e ci dirigiamo in taxi verso la nostra posada, caldamente consigliata dalla Lonely Planet. Non restiamo delusi. La posada Don Carlos, infatti, occupa una grossa villa coloniale in una vietta di case colorate, proprio dietro piazza Bolivar, il centro di ogni città venezuelana. Dentro mantiene un'atmosfera dei tempi passati, è pulita e curata e dispone di un piccolo giardino; due mami ci preparano subito un sostanzioso desayuno per placare la nostra fame. La camera per cinque è abbastanza spaziosa e dispone di un soppalco, il soffitto di travi a vista mi permette di attaccare facilmente la zanzariera.
Scendiamo verso pranzo sul lungofiume, dove, essendo sabato, c'è un lungo mercato. L'Orinoco è una distesa marrone a perdita d'occhio, i pescatori sulla riva puliscono e vendono il pesce. La città in sè, a parte qualche scorcio interessante, non offre molto. C'è una bella vista panoramica a un isolato dalla nostra posada, una specie di giardino di massi che scende sulla collina per una cinquantina di metri, dei bei fiori. Organizziamo il tour al Salto Angel, che ci costa una cifra notevole: 1300 baht, al cambio attuale, circa 300 euro. Ora è pomeriggio e andiamo a schiacciare il meritato riposino. In serata, visto che piove, rimaniamo nel cortile della posada a scambiare due chiacchiere con altri ospiti. Il bar ha un aspetto antico, tutto di legno, e il barista-custode notturno è un vecchietto che ribattezziamo Buena Vista Social Club. Ci serve placidamente le cervezas (Claro! Tranquilo!) e ci racconta un po' la sua vita. In cortile ci sono ragazze e tipi europei, ma non ci interessa molto conoscerli. Buena Vista ci racconta di Caracas (Peligroso!, dice con un espressione atterrita). Mami ci prepara 5 Espagheti Bolognaise. Luca e Danilo escono per andare a ballare al Congo (o Bongo? mah..), gli altri a nanna. 

Canaima

Sveglia all'alba. La sboldra della posada ci porta all'aeroporto, dove però aspettiamo un paio d'ore che aggiustino l' impianto elettrico del nostro aereo. In realtà hanno fatto overbooking, e non resta che attendere, l'ambiente non è molto accogliente. Arriva il nostro Chessna a sei posti, pilota compreso. Il volo, anche se tre di noi sono paracadutisti e sono abbastanza abituati, è abbastanza terrificante. Passiamo sopra laghi, foreste e praterie, che il pilota non manca di indicarci compiendo virate ogni volta. Un serbatoio è vuoto, la spia dell'altro oscilla fra il pieno ed il vuoto. Non bastasse, passiamo attraverso un temporale, nelle nuvole grigie illuminate dai lampi mi attacco con le unghie ai poggiatesta davanti. Dopo un'ora in cui paesaggi ed emozioni non sono mancati, atterriamo a Canaima; Luca è lilla e sbocca, io ho la tentazione di baciare il suolo ma penso già al ritorno. Paghiamo una tassa d'ingresso al parco di 35 bolivares, un ragazzino ci porta alla nostra posada. E qui, la prima discussione con la guida. Il tizio vuol farci cambiare il giro, sostenendo di proporcene uno migliore che arrivava in serata al Salto Angel; ma noi da bravi italiani, ci incarogniamo sul giro originale, che prevede una sosta nella laguna di Canaima e il giro ad altre cascate, meno impegantive. Lui infine si arrende e partiamo. Per cui, dopo pranzo, raggiungiamo la laguna, cinta da 5 cascate e dall'acqua rossa come vino per via di tannini rilasciati dalle piante. Con una lunga barca affusolata, passiamo vicino alle cascate, e l'acqua ha sfumature davvero insolite. Giunti dall'altra parte, ci incamminiamo verso il salto Sapo, il sentiero si percorre in una mezzoretta. Prima osserviamo la massa d'acqua che precipita dall'alto, poi scendiamo a valle e con un passaggio naturale ci passiamo attraverso. Ci laviamo da capo a piedi per raggiungere l'altra sponda, ma ci divertiamo un sacco; la vista è suggestiva. Al ritorno, passiamo il tempo a fare un po' di lotta sulle spiaggia rosa lagunare. Conosciamo un turista di Enna, anche lui dice di essere stato derubato dai poliziotti a Caracas.
Dopo cena, quando ci stiamo arrendendo ad una serata permeata di Nulla, conosciamo Onorio, uno spagnolo che sta con una venezuelana, il quale ci svela la presenza dell Amnesia, il bingo-discoteca centro della vita notturna di Canaima. In pratica, in uno spiazzo, ci sono delle panche, qualcuno che balla, anche se l'attrazione vera della serata sono le estrazioni dei numeri, che tutti ascoltano in religioso silenzio. Tiriamo mezzanotte, Onorio ci parla delle bellezze della Colombia e della sua cultura. Per noi, potrebbe essere una continuazione di vacanza, abbiamo tempo e non ci precludiamo di sconfinare. Il ventaglio di ipotesi comprende Trinidad, Guyana, Cuba o Jamaica, e ora anche Colombia. 

Salto Angel

Ieri è stato il giorno della gita al Salto Angel. Siamo partiti dal campamiento a Canaima alle 11, perchè dovevamo aspettare altri che si unissero al gruppo. Dopo un quarto d'ora di camminata, raggiungiamo l'imbarcadero. Sulla barca, coprono i nostri zaini con un telo impermeabile, e presto capiamo perchè. Dopo mezz'ora di navigazione tranquilla, dobbiamo scendere perchè le rapide sono forti e il fondo troppo basso. Camminiamo su un sentiero fra steppe erbose, pietre nere tondeggianti e grossi formicai. Riprendiamo la barca, e da lì in poi prendiamo incessantemente acqua, fra pioggia fine e battente, schizzi del fiume ecc. Dopo un po' iniziamo ad avvistare i tepui, cioè le montagne coi bordi a strapiombo che emergono dalla foresta , un po' minacciosi e avvolti dalla foschia. Dopo tre ore di navigazione controcorrente, attracchiamo nei pressi del campamiento; siamo già fradici. La guida ci consiglia di andare subito al mirador, perchè la visibilità è buona e domani potrebbe essere nuvoloso. Il sentiero per raggiungerlo è in salita, non è tracciato benissimo, è abbastanza impegnativo, grosse radici d'albero da superare e fiumiciattoli da passare su tronchi. La fatica, dopo un'oretta a passo veloce, viene ripagata dal belvedere, in cui conquistiamo una bella posizione per ammirare la muraglia d'acqua, che da un po' sentivamo scrosciare. Il Salto Angel appare all'improvviso tra gli alberi, dopo un altro pezzo di sentiero arriviamo al laghetto rossastro alla base della cascata. Ci tuffiamo, l'acqua è gelida e di un colore inquietante, fra il barbera e il sangue, ma il panorama è mozzafiato, la colonna liquida sopra di noi che termina come vapore la sua caduta, ma soprattutto la valle sotto. Nonostante la guida ci abbia consigliato di fare un bagno veloce. ci dilunghiamo più del dovuto fra tuffi e pose per le foto. Il risultato è che cala presto il sole, e siamo costretti a ripercorrere il sentiero prima in penombra, e poi nelle tenebre. Come se non bastasse, appena fa buio fitto inizia a piovere a secchiate, per cui il percorso diventa presto una via crucis. Rocce scivolose, radici, ostacoli nascosti, acqua anche fino al ginocchio, eccetera; camminiamo come automi, come soldati, seguenda una foca luce più a valle. Mi chiedo tuttora come siamo potuti arrivare interi al campamiento; sembriamo degli scampati ad un disastro. Una ragazza di Torino, Giulia di 15 anni, ci aiuta stoicamente con la sua piccola torcia, la ripago cedendole il mio quasi impermeabile visto che è fradicia in maglietta e batte i denti. Al campamiento ci asciughiamo e ci mettiamo il ricambio saggiamente portato con noi. I bagni sono inavvicinabili, per cui facciamo i nostri bisogni sul ciglio della foresta, il cielo ora è sereno e fra gli alberi si vede il Salto, l'acqua è bianca sotto la luna. Non mi ricordo di aver visto una luna così, prima, una falce con entrambe le punte rivolte verso l'alto; forse in Messico. Mangiamo tutti assieme ad una tavolata comune, che Andrea non manca di benedire con una tonante bestemmia. Facciamo due chiacchiere con altri italiani, una partitina a scopa e poi tutti a dormire in amache, ricoperti dalle zanzariere; scopro troppo tardi che è molto più comodo dormire stendendo la coperta a terra e mettendocisi sopra.
Stamattina colazione veloce, ritorno sul fiume mediamente umido e ricco di insetti, volo quasi tranquillo e poi di nuovo alla posada San Carlos a Ciudad Bolivar, a lavare la roba e riprendere un aspetto umano.
Nota: mentre pranziamo, un turista romano ci racconta di come è stato menato e derubato da un finto tassista a Caracas. Per cui Polizia-criminali: 2-1

verso nord

Lasciamo la posada. Ieri sera c'è sta un'accesa discussione che ha toccato vari temi, dai problemi dell'Italia al nostro itinerario. Ci siamo scolati una bottiglia di Santa Teresa e poi, da solo, sono sceso fino al fiume per mangiare qualcosa, sfidando la terribile notte venezuelana e i pescatori di pesci gatto. Alla fine abbiamo deciso di andare verso nord, verso il mare, direzione Puerto La Cruz. Per cui, zaini in spalla, scendiamo sul lungofiume a prendere l'autobus per la stazione, e ci saliamo nonostante il pigia pigia. Per prenotare la fermata, ci dice una sciura, è necessario battere le mani, e noi in ritardo facciamo una standing ovation che fa ridere tutto l'autobus. Dalla stazione prendiamo un pullman, non in ottimo stato. Il viaggio di 5 ore è climaticamente disastroso. All'inizio ci mettiamo nei posti in fondo, ma scopriamo il tranello: siamo sopra al motore, praticamente il radiatore siamo noi. Appena si liberano dei posti davanti, ci fiondiamo come dei ninja, ma qui ci sono i bocchettoni dell'aria condizionata che non si chiude neanche a martellate e finisce il lavoro di devastazione.
Arriviamo a Puerto La Cruz all'imbrunire. La città, a parte un vivace lungomare, è un po' tetra e sporca, basura e palazzoni, strade scassate, voragini nell'asfalto. Al terzo hotel in cui chiediamo, il Riviera, troviamo posto per tutti e cinque, una sistemazione non proprio economica ma almeno dignitoso e pulito. Ceniamo in un ristorante arabo e passeggiamo un po' fra le bancarelle, che vendono la solita fuffa, a parte qualche eccezione. Danilo va a casa perchè non si sente bene, noi decidiamo di vivere la notte. Chiediamo al tassista e ci consiglia la Lecheria, che è una zona in cui dovrebbe esserci un po' di vita. La strada abbandona la parte povera per addentrarsi in quella ricca, a destra ci sono magnifiche villette circondate dai canali, alcune con relativa barchetta. A sinistra, invece, dei palazzi abbastanza alti ma architettonicamente non sgradevoli. Sul lungomare, un parcheggio, in cui c'è la gioventù bene di Puerto. I giovani ricchi si ritrovano a confrontare le loro auto elaborate, sgasano, bevono, fanno vibrare le casse degli enormi impianti delle macchine. Dopo un po' ci stufiamo. Ci dicono che c'è una bella discoteca, il Bambuddha, dove dovrebbe esserci vita nonostante sia mercoledì. Ci andiamo, e il tassista non ci fa pagare la corsa perchè i suoi sono di origini italiane, gli diciamo grazie paisà. Il posto non è male, tre sale affollate, un'orchestrina suona salsa dal vivo, passiamo la serata fra quinte, cuba ecc. 

Puerto la Cruz

La giornata trascorre prima sulla spiaggia di El Saco, su cui ci rechiamo in barca. E' su un'isola selvaggia, qualche chiosco, ombrelloni di fogliame, famigliole, barriera corallina non eccezionale, un po' di sporco. Abbiamo il nostro frigo di polistirolo e ci passa. Alle 3 parte un acquazzone e decidiamo di tornare sulla costa. Dopo un pisolino, ceniamo sulla terrazza del Hotel Neptuno, posto molto alla buona (forse troppe), e vista sul finale di lungomare. Serata fra le discoteche di Mania, Bambuddha, toacarte toa e sexy muchachate varie.
Abbiamo passato gli ultimi due giorni in questa cittadina, decisi a sfruttare la movida del weekend prima del ritiro spirituale di Mochima. Purtroppo le condizioni di Danilo non sono migliorate, per cui ora Luca e Andre lo stanno accompagnando all' ospedale di Guaraguao per capire cos'abbia. Sono quattro giorni che ha febbre altalenante e dolori al ventre, oltre che alla testa. Cito senza ordine episodi e personaggi di sti giorni.
- il pusher-gollum che ci dice nadahhh sibilando
- il gruppo di gente conosciuta al Bambuddha che sembrava ci avessero invitato alla mega-villa, invece ci siamo trovati in un monolocale di un palazzone tipo 27 a Cologno.
- il tassista italiano che ci manda la corsa. Lo ribeccheremo in discoteca con la moglie libanese.
- i due napoletani un po' fatti ("me sto ruinand!"), cacciati dall'hotel Europa per aver portato donne e coca.
- la pelea (rissa) in Paseo Colon fra un tizio ed un'ubriacona. Questa finisce a terra a pigliare calci.
- il cambiavaluta per strada con le calze imbottite di soldi.
- le due giornaliste, di cui una di legno, che per un po' ci scorrazzano e ci lasciano, con una bottiglia di Cacique, al Paseo Colon.
- cani rognosi ovunque.
- l'albero del male, un tronco sul lungomare che si notte si infesta di ratti e rapidi scarrafoni.
- la gente che attacca i cellulari ai pali della luce, forniti di prese elettriche
- rincontriamo Ciribiri, il peruviano folle di Chichiriviche, e ci ignoriamo a vicenda.
- colonna sonora: raggaeton, salsa a litrate, il valenato colombiano è considerato musica per poveri che parla di amori e ceffoni.
- i "fiori di corallo" , a centinaia, che si chiudono di scatto quando ti avvicini.
- in sei pigiati su un taxi tabbozzo con la musica a palla.
- la cassiera che "habla con los ojos"
- grande presenza di arabi
- donne di una bellezza rara, alcune ritoccate, amano il loro Paese e parlarne, regalano sorrisi. Per loro tutti i bianchi sono gringos, puntualizziamo che siamo italiani.
Purtroppo non ci sono buone notizie. Danilo è tornato dall'ospedale di Guaraguo con una diagnosi preoccupante: paludismo, cioè una forma di malaria. Lo ha sicuramente preso a Canaima, anche se ci avevano detto essere una zona non malarica. Siamo dovuti restare un giorno in più per poter andare all'ospedale di Barcelona, per confermare la diagnosi ed eventualmente curare la malattia. Il morale di tutti è abbastanza basso. Speriamo che gli prescrivano solo delle pastiglie e non lo trattengano, iniziamo a non sopportare più questa città e vogliamo scappare a Mochima, per passare qualche giorno spensierato.

Mochima

Fortunatamente, Danilo, Marco e Andre sono tornati dall'ospedale con buone notizie: nessuno ha la malaria, almeno ad un primo esame. Pieni di nuova gioia, abbiamo preso una serie di pulmini, uno più scassato dell'altro, e siamo arrivati nella ridente cittadina di Mochima, nel parco omonimo. La strada si snoda nella foresta, poi scende in una baia che al tramonto è spettacolare. Il paesino è carino, attorno al molo qualche negozietto e ristorantino. L'autista del carro ci ha accompagnato nella solita posada "della zia", che in effetti supera le nostre aspettative e si dimostra un buon investimento. Infatti, abbiamo a disposizione un intero appartamento con vista mare, per circa sette euro a testa al giorno. Ora appena pronti andremo a fare una bella cena per dimenticare i guai di Puerto la Cruz.
Abbiamo trascorso quattro giorni spensierati a Mochima. La baia è molto suggestiva, colline verdi attorno al mare turchese, e in fondo il paesino di casette colorate. Ieri siamo stati in spiaggia, il solito snorkeling, i soliti cuba, sulla Playa Blanca, l'unica un po' popolata nei dintorni. Stamattina siamo andati a vedere i delfini nella rada dell'Isla venado, è stato emozionante, un gruppo di una dozzina ci saltava di fianco e ci superava; eravamo contenti come bambini. Pomeriggio in Playa e solitra serata nel paesino fantasma.
Anche stamattina l'abbiamo trascorsa oziando mollemente sulla Playa Blanca, bevendo squisiti Daiquiri alla banana; verso le due si stava rannuvolando, ed io e Danilo abbiamo deciso di andare col capitano ed il suo aiutante a pescare. Un nylon con dei piombi rudimentali ed un'esca di pesce ci fanno tirare su una ventina di grosse aringhe o qualcosa di simile, e tre pesci che sembrano scorfani. L'acqua è talmente limpida che vedo chiaramente l'esca a 7-8 metri di profondità. E' stato bello farsi cullare dalle onde insieme ai pellicani in attesa di un pesce, ascoltare i pescatori dell altre barche che parlavano e ridevano, il tramonto che lentamente colorava il cielo. Abbiamo comprato patate e pane, che abbiamo mangiato col nostro pescado. Fortunatamente la sciura della posada ci ha aiutato a cucinare, portando peperoni e cipolle. Domani partiamo per la Isla de Margarita, lasciandoci alle spalle questa tranquilla oasi verde di pace, dove il mare è caldo e turchese. Anche ieri io e Danilo abbiamo pescato dallo scoglio, recuperando il solito quasi-scorfano e un paio di grossi granchi, presi al laccetto più per passatempo che per altro. Il pesce ce l'hanno cucinato gratis sulla spiaggia. 

Isla de Margarita

Il viaggio sulla lancia rapida è stato il solito inferno: calca animale sotto il sole per accedere alla barca, posti conquistati a gomitate, locale climatizzato tipo Findus senza possibilità di fuga, non posso neanche fumare una sigaretta per smaltire la tensione. All'arrivo sull'isola, ci accoglie un vero nubifragio, il pontile è lungo e stretto. Sgomitiamo con quelli che salgono per passare, pioggia a secchiate e neanche una tettoia, confusione per capire dove arrivassero i bagagli. Abbiamo conosciuto un italo-venezuelano, Saverio, che ci ha fatto un po' da guida e il suo amico Josè, per 60 bolivari, ci ha portati prima in aeroporto, e poi a Porlamar a cercare un albergo. Abbiamo trovato una quintupla all' hotel Torino (che ora si chiama Jinama), nel centro storico. La stanza era un po' scarna e tetra, e gli altri hanno voluto cercarne un'altra. Dopo aver girato un'ora a sentire il ritornello "No hay abitaciones", siamo tornati al Torino. Andre fa il muso, Marco si lamenta, a me sembra che ci si possano passare un paio di giorni senza troppi drammi. La zona è molto pittoresca, negozietti, bancarelle, fiumi di gente. La sera l'abbiamo passata al Frogs, una discoteca di fighetti locaali, un posto uguale a mille altri a Milano. Stamattina Luca, Marco e Andre sono andati alla ricerca di un altro hotel, io e Danilo siamo scesi a fare colazione alla Panaderia sotto l'albergo, e a mandare un paio di mail, in un internet point che ha poi perso la connessione facendoci perdere tempo e basta. La serata si perde in una discoteca vicino al Senor Frogs, l'Opah, un posto revival con salsa, biggies, balli e babbuine varie. Danilo scopre di avere il morbo, cioè la spontanea erezione dovuta ai balli calienti. M. cambia i soldi da un prestigiatore, che gli fa apparire una colomba.. lì! Litigi vari su dove andare.

Playa el Agua

Stamattina abbiamo lasciato l'hotel ludro alla volta di Juan Griego. Abbiamo recuperato un tassinaro con un vecchio Land Rover. Il paesino ci è apparso francamente un po' triste, e l'unica posada decente era piena, per cui ci siamo sparati a Playa el Agua. Troviamo un labergo, o meglio un villaggetto, che si chiama Coco Paraiso. La quintupla ci costa circa 15 euro a testa, ma è veramente ben tenuto e ricco di verde. Lo spiaggione sarà lungo tre chilometri, meno affollato di quanto pensassimo. Dopo poco sto fumando un Romeo y Julieta vendutomi da un cubano (che, mi spiega con fare complice, Chavez e Castro sono amici). Siamo più o meno tutti contenti, Il ristorante italiano di fronte all'albergo, il Viento en Popa, è gestito da ragazzi di Quarto Oggiaro. Ci cucinano un'ottima spaghettata allo scoglio, e ci offrono un giro di Cacique, sono molto simpatici. In serata proviamo ad andare nell'unica discoteca di qua, il Woody's, ma ci sono più buttafuori che persone dentro. Desistiamo, beviamo una birretta in un baretto sulla spiaggia, e poi a nanna.
I giorni trascorrono oziosi sull'isola. Il tempo è clemente, il mare non è dei migliori, ma in fondo si sta bene. Diversi italiani, alcuni dei quali sembrano apprezzare la coca. La vita notturna, qui, è pressochè nulla, domani torneremo a Porlamar per riprenderci da tre giorni di tornei a scopa e passeggiate sul vialone deserto. Il woody's è un ricettacolo di mignotte e falliti. Ieri sera ho bevuto troppo. Qua sembra esserci qualche oggetto di artigianato un po'particolare da portare a casa. La spiaggia è abbastanza popolata, la gente però a sera torna nei villaggi o in città, lasciandoci soli con i cespugli che rotolano e i cani rognosi. Alcuni di noi sono un po' delusi dal Venezuela, io invece sono abbastanza soddisfatto, sebbene un paio di settimane anche in Colombia non avrebbero guastato. Ho fatto tre settimane di mare, in posti sempre diversi e particolari, oltre al viaggio fino al Salto Angel.
Abbiamo lasciato la Isla, ora siamo in viaggio in autobus per Caracas. Gli ultimi due giorni sono stati abbastanza movimentati. L'altro ieri era l'ultimo giorno di Luca e Andre, ci siamo dati un po' agli stravizi, abbiamo anche aperto la bottiglia di cacique Antiguo, alla fine ci siamo tuffati in piscina di notte.. Nudi, io avevo solo un sigaro tipo Hannibal (adoro i piani ben riusciti!). Il giorno dopo eravamo la leggenda del Coco Paraiso, la "padrona" continuava a ridere, ha detto che eravamo quasi arrivati alla fine senza combinare macelli. Ieri siamo stati principalmente in spiaggia, a chiacchierare con due ragazzi di Vigevano che abbiamo conosciuto. Il mare era pulito. Ah, dimenticavo. L'altro giorno abbiamo noleggiato un auto, abbiamo girato un po' la Isla, per poi finire a Playa Caribe, non male ma ci aspettavamo un mare un po' migliore. Alla sera siamo tornati al Senor Frogs, era semivuoto. Il giorno dopo, mentre Andre e Luca erano in spiaggia, io e Marco siamo andati al Pueble de Margarita, una cittadella-museo congelata all'inizio del secolo scorso, con abitazioni e negozi perfettamente conservati. C'è anche un cinematografo con un proiettore enorme e una piccola stamperia. Ma il pezzo forte è l'alambiqueria, e cioè una vecchia distilleria, in cui il vecchio-guida ci ha spiegato il processo di fabbricazione del rhum, dalla cottura della melassa di canna da zucchero alla distillazione.
Tornando a ieri sera, siamo andati a cena in un ristorante di carne a Pampatar, con Checco, Maurizio e gli altri ragazzi del Viento en Popa. Ci siamo abbuffati di cerdo e lomitos, finalmente un po' di carne buona. Chiacchierando, abbiamo scoperto che:
- commissionare un omicidio costa circa 200 euro, la stessa cifra che serve per corrompere un poliziotto per "chiudere un occhio".
- A Margarita prezzi e criminalità stanno aumentando, di conseguenza il turismo sta diminuendo. Playa el Agua, ad esempio, un paio di anni fa sembrava Rimini ad agosto, ora sembra Gatteo Mare a giugno. I ragazzi pensano di vendere tutto e migrare in Brasile. 

Caracas

Siamo arrivati a Caracas dopo un viaggio della speranza in pullman; ne abbiamo trovato uno che partiva "ahorita" da Cumanà, alle 10 di sera ci scarica nella stazione della capitale. Il tassista pippato ci ha portato nella zona Los Caobos, all' Hotel Renovacion, in av. Este 2 n°154, pulito e a prezzi onesti. Il tempo di darci una pettinata e ci siamo buttati nella Rumba Caraqueña. Prima siamo andati a Las Mercedes, un viale costeggiato da diversi locali, che però non ci sono sembrati un granchè. Alcune discoteche volevano parecchio solo per entrare, e viste da fuori sembravano dei buchi, tipo l'Hollywood a Milano. Dopo un hamburguesa volante, ci siamo fatti portare a questo San Ignacio di cui tutti parlano. E' un centro commerciale a più piani, i ragazzi vagano sulle scale mobili davanti ai negozi chiusi, sembra un piano sequenza di Sorrentino. A piano terra, ci sono una decina di bar-discoteca, dove corpi ansanti e sudati si agitano nella mischia, al ritmo dei tormentoni dell'estate venezuelana. Dopo diverse tappe, decidiamo di dirigerci verso l'hotel per il meritato riposo. Il traffico è abbastanza fuori controllo, si rischia di venire investiti anche se si attraversa col verde. I taxi più sicuri sono quelli regolari con la targa gialla, ma se ispira fiducia si può provare un "pirata", che applica tariffe più oneste ma in alcuni (rari) casi si rivela un rapinatore, spesso improvvisato. 

Caracas

Ultimo giorno a Caracas. Ci svegliamo, il tempo di una doccia e siamo pronti per girare un po' la città, in attesa di andare all'aeroporto. L'albergatore ci consiglia di andare al Sandil, una specie di mega centro commerciale, ma a noi non interessa proprio. Prendiamo la metro alla stazione di Belles Artes e, in fila per acquistare il biglietto, conosciamo tre italiani, di cui uno qua da 13 anni, che stanno andando a fare un giro in centro. Alla fermata di Capitolio si concentrano le maggiori attrazioni della città: il parlamento, la cattedrale, il Museo Bolivariano (con reperti forse non indispensabili, come le calze ed il rasoio del Libertador), e la sua casa natale, dove di interessanti ci sono dei bei quadri e affreschi di Tito Salas che raffigurano le gesta dell'eroe. C'è inoltre il famoso albero sotto cui il giovane Simòn stava a studiare e a pensare come cambiare il mondo; il panorama dietro è però rovinato da un osceno palazzone in disfacimento. Dopo questo interessante intermezzo ci riposiamo sotto gli alberi in Plaza Bolivar, sui cui rami scorrazzano scoiattoli nere e iguane. Passeggiamo nei dintorni ma, a parte un'umanità variegata e qualche bel murales, c'è poco da vedere. Un tassista, infine, ci riporta all'aeroporto, per l'aereo con detinazione Madrid. Ah già, l'aeroporto, naturalmente, si chiama Simòn Bolivar.

LAOS

Laos - Vientiane

Dopo una decina di giorni nelle acque cristalline di Koh Chang, il mio spirito guida mi spinge verso nord, e decido di intraprendere il non facile tragitto verso il Laos. Attraverserò la frontiera dalla parte di Nong Khai. Un'alba terribilmente meravigliosa attraversa le sbarre del finestrino, mentre sono nel cesso del treno a fumarmi una sigaretta. Ho dormito relativamente bene nella cuccetta, mi sento abbastanza riposato. I tagli che mi sono fatto sui coralli sembra stiano cicatrizzando bene, non voglio che facciano infezione come in Sudafrica. Fra un po' dovremmo essere al confine laotiano.
L'ingresso nel Paese è un po' uno sbattimento. Non avendolo fatto con nessuna agenzia, ho passato circa un'ora fra bolli, code, firme ecc. Tassa di ingresso di 35 dollari, che varia a seconda della nazionalità di provenienza secondo parametri difficili da capire. Cambio subito 200 dollari, mi danno qualcosa come due milioni di kip, un malloppo voluminoso di banconote. Oltre frontiera, ho preso un tuktuk-furgonato. Fare capire all'autista dove fosse la Syri guesthouse è stata un'impresa, gli mostravo la cartina ma non dava cenni di orientamento, neanche minimi. Non capiva una sola parola nè di inglese, nè di francese, italiano neanche ho provato. Alla fine ce l'ho fatta, fino a Vientiane, durata del tragitto circa tre quarti d'ora. Pochi sanno che Vientiane significa "città del sandalo". Alla Syri mi danno una camera al primo piano, arredata con mobili coloniali tarlati. La guesthouse è dietro lo stadio, non lontano dal centro. Passo il pomeriggio in bicicletta, gestilmente messa a disposizione dalla sciura in reception. Devo farmi aiutare da lei per togliere il complicato cavalletto. La città non è grande, ma alcune salite sotto il sole cocente sono massacranti. Arrivo madido in cima ad una strada e mi trovo proprio davanti al Patuxai, una specie di arco di trionfo nerastro, costruito per festeggiare l'indipendenza della Francia. Non lontano c'è il meraviglioso Pha That Luang, uno stupa eccezionale completamente ricoperto di lamina dorata che scintilla nel sole tropicale. All'interno, due giovani monaci scambiano piacevolmente due chiacchiere, dicono che devono perfezionare il loro inglese. Vogliono che racconti loro dell'Italia, ma da come ne parlano ho il sospetto che non abbiano la minima idea di dove si trovi. Fuori dal tempio, trovo una gomma sgonfia, e guarda caso uno zelante guidatore di tuk tuk si offre di riportarmi indietro. Ho la vaga sensazione di essere vittima di una piccola "truffa", ma il costo del passaggio è talmente irrisorio che decido di non pensarci. Qui in giro mi guardano con curiosità, non ci sono molti farang in giro. Solo i monaci parlano qualcosa di inglese, con gli altri mi esprimo a gesti o come riesco. Mi addentro, dopo avere legato la bici, in un mercato all'aperto. Le tende che lo ricoprono sono talmente basse che sono continuamente obbligato a chinare la testa, suscitando l'ilarità composta di alcune venditrici. Si vende di tutto, ma è la zona della carne a suscitare stupore e meraviglia. Ci sono ratti secchi, altri che sembrano cani scuoiati, la carne spesso si vede a fatica sotto i nugoli di mosche. Più tardi, mentre mi rilasso nel parco di un tempio all'ombra di alberi giganteschi, due donne, madre e figlia, mi offrono delle specie di involtini di mais avvolti in foglie di banano. Tentiamo di comunicare ma l'impresa è ardua. Dopo un po' se ne vanno, salutandomi sorridenti. L'atmosfera di Vientiane è molto rilassata, coloniale e pigra.
Alla sera, ceno in un ristorante francese pretenzioso in piazza Nam Phou, scambiando due chiacchiere con un panciuto ed ilare canadese che è qui per lavoro. Questa piazza dovrebbe essere il cuore pulsante della città, ma di vita sembra essercene ben poca. Durante la notte vengo molestato dalle zanzare e sono costretto a farmi una doccia di Autan. Domani compio 29 anni.

verso Vang Vieng

E' l'alba, fuori è ancora buio. Non sono sicuro se si tratti di sogno o realtà, ma sento una voce femminile che grida Hallo! Hallo! Quando mi sveglio completamente, mi affaccio dalla finestra e sento questa ragazza che racconta al gestore della guesthouse di essere stata derubata. E' inglese ma dai tratti orientali. In pratica dei ragazzi in moto hanno offerto a lei ed al suo ragazzo un passaggio. Lei ha messo il suo marsupio nel cesto sul manubrio e non appena è scesa, quello è ripartito a tutta birra. Poverina, ha perso passaporto, soldi, cellulare, e non sa come fare; non fa altro che ripetere "I can't believe it", anche perchè dice che è stata anche in Cambogia e Birmania e non pensava che una cosa simile le capitasse nel pacato Lao. Dice " a lot of money" e un sacco di sterline sono un patrimonio in questo Paese, penso che il motociclista ci vivrà per un anno almeno. Vabbè, già che sono sveglio mi faccio una doccia e vado a cercare qualcosa da mangiare. Mentre passeggio penso che in città ci sia ancora poco da vedere, e decido di proseguire verso nord. In una agenzia di autobus compro il biglietto.
La giornata, poi, è decisamente movimentata. Mi sono sparato tre ore di pullman per arrivare a Vang Vieng, e lottando duramente ho ottenuto un posto onesto, quello in mezzo in fondo, dove posso allungare le gambe. La strada per il primo centinaio di chilometri si snoda fra dolci pianure, lievi declivi e risaie. Qualche edificio coloniale, chioschetti ai lati della strada, laghetti in cui si rinfrescano dei bufali. Un contorno suggestivo, che diventa presto montagnoso, il bus tossicchia lungo le salite. La sensazione di lasciarsi alle spalle la civiltà assieme all'assonnata Vientiane. A colpo d'occhio sembra un paesaggio estivo alpino, solo le case su palafitte e le risaie, assieme alla vegetazione, mi ricordano di essere in Indocina. Quando passiamo su un ponte scricchiolante, io ed un ragazzo tedesco ci guardiamo e facciamo il segno della croce, sorridendo poi per il pericolo scampato.
Arriviamo a Vang Vieng, che è un borgo appena poco più grosso di quelli che abbiamo attraversato venendo. Ha due strade principali, di cui una si snoda sul fiume. Prendo una camera al Thavisak Guesthouse per 5 dollari, pulita e con ventilatore. Il caso vuole che oggi compio 29 anni e mi diano la stanza 29. Sul soffitto si rincorrono decine di gechi. Mi aggrego ad una compagnia di australiani, sebbene spesso il loro inglese non sia proprio accademico, e giriamo la città. Quello che in controluce sembra un grosso pipistrello in realtà è.. una farfalla! Si avvicina a me fin quasi a farsi toccare, poi vola via, verso il fiume. Il pranzo si trasforma presto in una festa non stop per il mio compleanno, e mi emoziono un po' quando tutta la compagnia, che si è ingrossata fino ad una ventina di persone, mi regala una torcia per la testa e mi canta "tanti auguri" in quasi-italiano. In serata, un po' brilli, andiamo a rilassarci sui comodi cuscini e tappeti di un baretto sulla strada principale, gli australiani si scatenano e ordinano special bread, tè ai funghi e altre pietanze vagamente allucinogene. 

Vang Vieng

Giornata all'insegna dell'ozio semi-avventuroso. Dopo una colazione sostanziosa, ci siamo organizzati per il tubing. In pratica, un furgoncino ci porta sulle rive del fiume, circa 5 chilometri a monte della cittadina. Lì ci danno delle camere d'aria di pullman e ci buttano in acqua. Lungo la discesa, diversi baretti di bambù lungo le rive, aggrappati ai margini, in cui non manchiamo di fermarci e ordinare "lam en cok" , una sorta di cuba libre fatto con un rhum terrificante. Ogni stop è un secchiello di questa bevanda, per cui dopo un po' la visione della scena si fa vagamente confusa. Ci sono anche dei rudimentali alti trampolini e funi, che permettono di fare tuffi spettacolari nel Nam Song. Ci buttiamo più e più volte nel placido fiume marrone, che è in piena e dobbiamo affrontare solo un paio di rapide ridicole. Mentre ci lasciamo dolcemente cullare dalla corrente, ci scambiamo brindisi e tentiamo acrobazie sui pneumatici; sono l'unico che riesce a mettercisi in piedi, in una sorta di parodia del surf, e mantengo alto l'onore italico nel mondo. La ragazza inglese mi dice "What are you doing crazy italian!". Posha, il cui succinto costumino è inaffrontabile senza mancamenti, dice che con la bottiglietta di rhum sembro un pirata. La montagna alla nostra destra, a picco e ricoperta di vegetazione, incombe solennemente su di noi. Mi spiace di non aver portato con me la macchina fotografica, per ovvi motivi, ma conservo dei ricordi meravigliosi della giornata. Arriviamo in città quando il sole sta ormai tramontando, spiaggiamo su un argine liberato da arbusti e bambù. Mentre torniamo alla base, sbircio dentro qualche casetta. Le famiglie mangiano su un tappeto per terra, guardando ipnotizzati la tv. Anche nei bar, i giovani avventurieri farang siedono su molli divani e guardano puntate dei Griffin. Mi chiedo che senso abbia venire in Lao per vedere la televisione.
Serata solitaria in un baretto sul Nam Song, la cui presenza è invisibile nel buio ma imponente; decido che il fiume si chiama Song perchè quando scorre sembra che canti. 

Luhang Phrabang

Partenza iperpiovosa verso Luhang Phrabang, cielo plumbeo. Il viaggio in minibus, di qualche centinaio di chilometri, attraversa montagne lussureggianti di verde ed incoronate da basse nuvole. Diversi villaggi, veramente rustici e di massimo una ventina di case, con sciami di bambini, vacche, oche eccetera. Sui terrazzamenti, la gente coltiva il riso in maniera tradizionale, con il tipico cappello di paglia a cono e la schiena ricurva verso l'acqua.
Luhang Phrabang confonde le idee, disorienta, girandola in bici mi ci perdo piacevolmente. In verità avrei voluto noleggiare un motorino, ma deve essere successo qualche casino in passato perchè mi dicono che ai farang non li noleggiano più. LP E' forse l'unica città in Lao in cui i turisti si notano, ristorantini e mercatini hanno un aspetto più moderno rispetto al resto del Paese. Mi inerpico per i 330 scalini che portano al That Wat Chomsi. Dall'alto del monte Phousi si può cogliere una visione d'insieme della città, che è su una lingua di terra alla confluenza del Mekong e del Nam Khane. Poi mi dedico a fare un po' di compere, fra i prodotti più tipici ci sono delle larghe sciarpe di seta che sono stupende. Di solito non mi abbandono a shopping sfrenati, ma ci sono diversi oggetti notevoli ed è un piacere mercanteggiare pacatamente per comprarli. Compro anche un lungo portapenne di pietra intagliata, ne avevo già visti di simili a Vientiane e mi ero mangiato le mani per non averne preso uno.
Più tardi rincontro Posha e i suoi due amici inglesi, ci ripromettiamo di vederci più tardi al Lao Lao Garden. Qui ceniamo e ci concediamo una bottiglia di vino bianco, che, pur essendo io abituato a bere vino, mi dà una mazzata allucinante, io e Posha siamo più che brilli. Fuori, ci avvicina un ragazzo per venderci dell'erba, che gentilmente rifiutiamo. 

Luhang Phrabang

Stamattina mi sono svegliato un po' rintronato per via dei bagordi di ieri, con piacevoli seppur vaghi ricordi della serata. Decido di dedicare la giornata alle escursioni nei paraggi. Contratto 25 dollari (una cifra probabilmente enorme) per un minipulmino ed una guida che mi accompagnerà tutto il giorno. Prima andiamo al villaggio di Ban Xanhai, famoso per la preparazione artigianale di liquore di riso, ed altra oggettistica più tradizionale. Bottiglie di liquore di riso con serpenti, scorpioni e millepiedi. Poi, passando per una strada disastrosa, arriviamo al villaggio di Pak Ou; da qui traghettiamo con una piroga sull'altro versante del Mekong, per andare a vedere le sacre grotte in cui un tempo vivevano degli eremiti. Saliamo diverse scalinate. Dei bambini vendono degli uccellini in delle gabbiette di vimini, ripetono "uan dola! uan dola!" Nel buio di queste grotte l'atmosfera è surreale, i fasci di luce delle torce illuminano le migliaia di statuette di Buddha tutte diverse lasciate dai pellegrini. Dopo il pranzetto di pesce sul Mekong, la mia guida, che si chiama Dui e parla poco inglese, mi chiede se io voglia una ragazza lao per fare bum-bum. Declino cortesemente la sua offerta, e lui fortunatamente non insiste. Nel pomeriggio passeggio pigramente per traverse poco affollate di LP, tentando di rubare qua e là qualche attimo di pace e qualche scorcio suggestivo. Teli arancioni lasciati ad asciugare nel giardino di un tempio, anziani che chiacchierano seduti sui parapetti lungo il fiume, bambini che giocano a rincorrersi. 

verso Vientiane

Mi sveglio presto, all'alba, senza che mi vengano a chiamare. Ho il pullman per Vientiane alle 8, e ne approfitto per fare un ultimo giro della città. I monaci sfilano in processione per chiedere l'elemosina, li sento tintinnare e faccio appena in tempo ad affacciarmi e a vedere la colonna arancione. Quando scendo, però, sono già scomparsi chissà dove. Le strade iniziano a prendere vita, ronzanti di tuk tuk e di gente. Vado in un mercatino di strada dove vendono alimenti, tutto su semplici stuoie per terra. Le donne agitano grossi ventagli per scacciare le mosche, ma non sembra funzionare molto; mi guardano e ridacchiano, falang falang, mentre altri sono del tutto impassibili alla mia presenza incongrua. Spezie, rane a mazzetti legate per le zampe, anguille e giganteschi pesci gatto ancora vivi che si dimenano nelle ceste. E poi dei bozzoli che sembrano frutti, la venditrice li sbuccia e dentro ci sono delle enormi larve bianche che si agitano mollemente per la luce improvvisa.
L'autobus parte in orario; il viaggio massacrante, di fianco alla graziosa Nu, è addolcito da paesaggi splendidi, forse più che all'andata. La strada è tutta una curva, la vecchia che siede due posti davanti a noi sbocca e sputa dal finestrino ogni 10 minuti. Nu vorrebbe scambiare due chiacchiere, ma il suo inglese ed il mio stordimento ci impediscono di andare oltre poche frasi di cortesia. Mi offre una cicca. Poi le montagne lasciano posto alla pianura e ben presto siamo nella capitale, più caotica di quanto la ricordassi. Anche l'autista. che vedo sbadigliare nello specchietto, accelera un po' non essendoci più precipizi ai lati della strada. All'arrivo, saluto Nu e prendo un tuk-tuk per 7 dollari (prezzo farang) fino alla frontiera, in cui sbrigo velocemente le formalità, e corro in stazione. Acchiappo appena in tempo l'ultimo treno per Bangkok. Mangio riso scotto e maiale dolce che ho preso in stazione mentre il treno era già praticamente in movimento. Il convoglio, che purtoppo non ha cuccette ma solo rigide panche, si tuffa nella notte, direzione sud. Mi adatterò a dormire così, anche perché non ho alternative, tenendomi abbracciato ben stretto al mio zaino che contiene le mie cose, per evitare furti. che dicono essere non rari in questi viaggi notturni.

FILIPPINE

Manila

Arrivo a Manila dopo un volo di un paio d'ore da Hong Kong. Siccome ho parecchia stanchezza sulle spalle, decido di pernottare in città, per poi buttarmi l'indomani alla scoperta delle isole. Fra i diversi ostelli, scelgo il Red Carabao (2819 Felix Huertas street, traversa di Aurora Boulevard, quartiere Santa Cruz, fermata metro Abad Santos). E' un palazzetto bianco, di cui l'ostello occupa la reception ed un paio di piani. E' molto curato ed inserito in un contesto popolare, lontano dalla asettiche Makati o Malate. In strada, galli da combattimento legati ai pali, bambini lavati sul marciapiede con dei cannelli, lamiere, jeepneys e tricicli a gogo, curiosità nei miei confronti; non devono vedere molti backpackers da queste parti. Essendo luglio, qui è bassa stagione, e l'ostello è praticamente vuoto, a parte me e tre ragazzi spagnoli; motivo per cui mi viene data un'intera camerata con quattro letti al prezzo di una branda (270 pp = 4,80 €). L'accoglienza è benevola, il ragazzo parla bene inglese. Dopo una sacrosanta doccia, mentre ancora vago con l'asciugamano, vengo invitato dai tre spagnoli (Jorge, Jesus e Paul) ad uscire a cena con loro. In effetti l'idea di girare da solo nella notte di Manila non è molto allettante, per cui decido di buon grado di unirmi a loro. Chiediamo qualche dritta al ragazzo dell'ostello, sembra sufficientemente sveglio per capire che con nightlife non intendiamo un bowling; ci indirizza verso una zona di locali (Timog Avenue), fra cui c'è il Barrakz. Arriviamo sul presto, i locali sono ancora vuoti e decidiamo di mangiare qualcosa; fortunatamente gli spagnoli hanno un budget limitato come me, per cui dopo aver dato un'occhiata a diversi menù esposti fuori dai ristoranti, ci fermiamo in una ludreria che griglia carne sul marciapiede, e ci abboffiamo di pollo, maiale e San Miguel (che diventerà una fedele compagna per tutta la vacanza). Mentre mangiamo troviamo il tempo di scambiare due chiacchiere con Kim e Marisa, e il conto è onesto (500 pp a testa = 8,80 €). Sul marciapiede iniziano a sciamare gruppi di giovani, la vita notturna si va animando, per cui con un rutto ci alziamo da tavola e ci dirigiamo verso il Barrakz che ora è pieno. Musica dal vivo, gente che balla, riescono anche a farmi un Cuba Libre degno di questo nome. Visitiamo anche qualche altro locale, e con l'intento di non fare troppo tardi ci troviamo alle 4:30 di mattina, alticci, a mangiare una pizza lì vicino per poi farci portare in ostello da un taxi. Prima del meritato sonno li saluto, loro in mattinata vanno a recuperare un amico in aeroporto e poi si avvieranno verso sud per andare a fare surf da qualche parte rinomata fra i patiti della tavola. 

Verso Sabang

Mi sveglio con una sguarella da sbornia tropicale. Sgrammo un po' di orange juice dal frigo comune, una doccia e poi preparo lo zaino, la voglia di arrivare al mare si è fatta imponente e non voglio perdere tempo. Prendo la metro, all'ingresso di ogni fermata i poliziotti fanno una superficiale controllo, vorrebbero che aprissi lo zaino, in italiano gli dico "ascolta, ma ti pare che mò tiro fuori venti chili di roba, dai mettiti a posto"; capiscono il senso, mi sorridono e mi dicono di passare pure. I vagoni sono gremiti oltre il credibile, mi infilo non so come in un pertugio trovando spazio anche per lo zaino; dopo qualche fermata mi accorgo di aver lasciato le scarpe in ostello (bisogna toglierle all'ingresso dei piani) per cui bestemmiando fra i denti torno indietro a recuperarle. Triciclo fino all'ostello dalla stazione della metro e ritorno 40pp. Riprendo quindi la metropolitana, che corre soprelevata per tutta la città, la guardo dai finestrini, baracche fetide e grattacieli moderni, palazzoni fatiscenti e case coloniali stupende. Non sembra una metropoli asiatica; le croci sulle chiese, il nostro alfabeto e le stesse facce della gente la rendono più simile ad una città sudamericana. Sulla metro sono l'unico occidentale in un mare di filippini, e continua a salire gente, tanto che ad alcune fermate, trovandomi vicino alla porta, protesto tentando di impedire che salga altra gente, visto che più di così non è umanamente possibile comprimersi. Loro mi guardano come un folle, sorridono e si accalcano senza problemi; essendo alto una spanna più della media vedo centinaia di occhi rivolti verso di me, ormai mi sono arreso a questo pogo senza musica. Dopo un po' arrivo alla fermata di Gil Puyol, dove c'è la stazione dei pulmann, prendo un biglietto per Batangas, la città sulla costa da cui partono i traghetti. Il bus mi costa 177 pp. Il cielo ora è coperto, inizia a piovigginare, qui è la stagione delle piogge e temo di vedere poco sole in questa vacanza (impressione che però sarà fortunatamente smentita, visto che pioverà tutti i giorni ma solo dalle cinque del pomeriggio in poi). Dal fondo del pullman arriva il chicchirichì di un gallo, deve essere chiuso in qualche scatola, i filippini hanno una passione smodata per i combattimenti fra questi animali e se ne trovano ovunque. Ad ogni fermata salgono venditori vari, che rimbalzo tutti gentilmente visto che ho già provviste per il viaggio, che dura circa un'oretta. Vendono noccioline, ciciarones (pelle di porco fritta), uova di qualglia, bevande. Dopo qualche minuto di pioggia a dirotto, torna il sereno, e arriviamo finalmente al porto di Batangas. Tento di prelevare ma il bancomat non funziona, per cui sono costretto a tornare in città con un triciclo per recuperare dei contanti. Di nuovo al porto, vengo preso di mira dai vari procacciatori che snocciolano destinazioni tutte a me ignote; Puerto Galera, Sabang, e chi le conosce? Sono giunto nelle Filippine totalmente impreparato, con solo una mappa del Paese staccata dal giornale di bordo delle Philippines Airlines (tra l'altro, a tutte le aviolinee filippine sono stati interdetti gli scali europei perchè non garantiscono gli standard di sicurezza, per cui si può immaginare con quanto ottimismo uno ci salga sopra; in realtà poi il volo mi è sembrato normalissimo). Insomma, sono lì spaesato non sapendo dove andare, infine scelgo a caso: Sabang. Il biglietto, tra permessi e supercazzole varie, mi costa 300 pp. Sul traghetto c'è poca gente, qualche filippino e un ragazzo occidentale con un'ingombrante attrezzatura da sub. Mi stendo comodamente a poppa su una panca, usando il mio tappeto turco come stuoia ed un giubbotto salvagente come cuscino; il sole splende, il mare è pulito e mi sento alla grande. L'occidentale dà segni di soffrire il mare, e siccome sta a prua gli consiglio di venire indietro, per evitare di saltare come un cowboy al rodeo. Lui mi dice che va bene lì, che il suo antiemetico è la San Miguel ed infatti dopo un po' sta meglio. Ne approfitto per fare due chiacchiere; lui si chiama Philip, è polacco e si è trasferito a vivere lì per fare l'istruttore di sub. Fra le altre cose, gli chiedo se conosce un buon posto per alloggiare, e lui mi consiglia il Sha-Che Inn, proprio sopra al suo negozio di sub, il Sea Rider. Arrivati al porto ci salutiamo, lui abita da un'altra parte, con l'intenzione di rivederci. Il Sha-Che Inn si trova a circa dieci minuti a piedi dal porto, direzione Big Laguna, ed è in posizione un po' defilata rispetto al centro del paese, che di sera si anima (così dice Phil) ed è difficile dormire. Infatti, sulla strada che mi porta all'alloggio che mi ha consigliato ci sono diversi locali, credevo di dover passare le serate a contare i granelli di sabbia. Il Sha-Che Inn (grazie ancora amico polacco) si rivela perfetto: è un complesso di casette proprio di fronte al mare, ho a disposizione una casetta con bagno e cucina privati, il tutto pulito come solo una donna filippina sa fare. C'è anche l'aria condizionata, ma io la detesto, per fortuna c'è anche un bel ventilatore a muro che subito accendo, anche se la temperatura già non è male. Il prezzo è ridicolo, 800 pp (14 euro) al giorno, più sconto alla fine se mi fermo un po'. I gestori sono una famiglia filippina molto cordiale, mi sento subito a mio agio. Dopo una doccia, faccio un giretto per il paese visto che per fare il bagno è tardi; molti bar con biliardo (che adoro), resort, negozietti, qualche discoteca. Non male, mi aspettavo una cittadina fantasma; cena a "La Dusserdorf", una pizzeria tedesca alle Filippine è un'esperienza da provare. Mangio una pizza sopra le aspettative (il mio stomaco era stanco di filippinate). Passo la cena ad osservare i gechi sulle pareti che si abboffano di stupide farfalline, che gli si appoggiano direttamente in bocca. Mi ero dato appuntamento con Philip al Broadway, ma vado direttamente a letto anche se sono le nove.
Mi sono svegliato che non era neanche l'alba, finalmente riposato e pieno di energie; l'aria era fresca, il cielo sereno, solo qualche nuvola paffutella all'orizzonte. Sono andato a fare colazione in paese, ci hanno messo mezz'ora per farmi due fette di pane tostato e due uova al cereghino. Piano piano, qui i ritmi sono ben lontani dagli standard occidentali; anche se mi riesce difficile capire, visto che ero l'unico cliente, come sia possibile metterci mezz'ora per friggere due uova. Poi, sulla spiaggia, sono stato avvicinato da un barcaiolo, Roy, per andare a vedere le isole vicino. Non parlando lui inglese, mi ha mostrato un cartello con le destinazioni; in italiano gli ho detto "portami su una spiaggia dove non mi rompe le palle nessuno". Non capiva, gli ho detto let's go, dopo dieci minuti di barca oltre Coco Beach, ho visto il posto che faceva per me: una spiaggia bianca di circa 300 metri, desolata, senza nessuno, con un gruppo di palme che creavano una zona d'ombra che mi chiamava; gli ho detto di fermarsi lì. Mi ha fatto capire che lì non c'era niente: appunto! Dopo un paio d'ore a leggere, fare bagnetti e prendere il sole, però, mi stavo un po' annoiando, e nonostante la mia posizione seminascosta è sopraggiunto un altro barcaiolo a recuperarmi, Poldo, che diventerà il mio barcaiolo di fiducia perchè è simpatico, non mi stressa i maroni e parla bene inglese. Per 500 pp mi ha proposto Coral Garden e ritorno. Ci ho pensato un po' ed ho accettato. Per fortuna ho portato la maschera dall'Italia, anche se non è difficile nè costoso noleggiarne una in paese. Arriviamo e non resto deluso: è una parte della Big Laguna piena di coralli di tutti i colori, rosa, lilla, azzurri, alcuni giallo fosforescente. Poi svariate specie di pesci diversi, pesci ago, pesci pappagallo, pesci alti e pesci piatti (non ne conosco purtroppo il nome). E poi decine di stelle marine blu, e ancora le giant clams, delle specie di ostriche grosse come bidoni, tanto che ora che ci penso ne ho viste alcune in paese usate come lavandini. Poldo dice di non toccarle, sono pericolose perchè se ci infili la mano si chiudono di scatto, e rimani lì ad affogare come un fesso senza che neanche il Signore ti possa salvare da quella stretta mortale. Mentre vago meravigliato con la maschera, Poldo ha buttato l'ancora poco distante e mi aspetta pazientemente, anzi quando sono stanco mi dice di attaccarmi alle barre laterali della barca per portarmi in qualche altra zona della laguna. Quando sono in overdose di bellezze sottomarine, salgo in barca e ci dedichiamo un po' alla pesca, e recuperiamo qualche pescetto da zuppa. A ora di pranzo, mi ha invitato a casa sua per conoscere la sua famiglia, invito che ho accettato volentieri. Abita in un'isoletta lì vicino, in una casa di bambù in prossimità della foresta, con la sua giovane moglie (lui ha la mia età, 32 anni, e la moglie una ventina) e i suoi quattro figli, due dei quali avuti dalla moglie precedente (morta di epilessia, mi dice). La casa è veramente rustica ma pulita e ordinata, contornata da bouganville e convolvoli viola che crescono spontanei. Gli chiedo quanto costa costruire una casa così, e lui mi risponde abbastanza, 50.000 pp (circa 900 euro) escluso il terreno. Mangiamo riso ed il pesce che abbiamo pescato. Nel tardo pomeriggio, appena arrivato alla mia casetta, inizia a piovere a dirotto. Mi guardo allo specchio, nonostante il solare 30 sono rosso a chiazze per il sole preso, per cui mi cospargo di doposole e mi faccio un bel pisolino.
Decido di noleggiare una moto per girare un po' i dintorni; mi danno una motocross Honda con la solita cilindrata assurda, in questo caso 200. Rispetto alla mia sembra un giocattolo della Peg Perego, fatico un po'ad abituarmi alle sospensioni alte e al peso ridotto, ma poi mi diverto un sacco a guidarla, è un trattorino che si arrampica dappertutto. Il prezzo normale sarebbe 800 pp al giorno, ma grazie all'intercessione di Philip (il noleggiatore è suo amico) ne pago solo 300. Il casco è il solito cappello di polistirolo, e credo di essere l'unico dell'isola ad averlo. La strada verso Puerto Galera si snoda all'interno con scorci sul mare e, a parte qualche breve pezzo, è in buone condizioni. Passa attraverso boschi, piccoli paesini, capre e bambini in quantità, alcuni tratti sono molto pittoreschi e l'aria profuma di fiori. Sul tragitto, mi fermo a guardare un'alta cascata che sembra essere una delle attrazioni locali, in realtà non mi colpisce particolarmente, forse perchè ho avuto la fortuna di vederne di ben più imponenti. Arrivo a Puerto Galera, che risulta essere una cittadella un po' più grande di Sabang. Ne approfitto per mungere l'unico bancomat nel raggio di decine di chilometri. La vietta dei negozi offre poco di interessante, a parte qualche oggettino di legno e dei curiosi portamonete fatti con dei rospi imbalsamati; sono oggetti che producono le popolazioni dell'interno e che scambiano con beni che a loro mancano, come benzina e altro. Proseguo sulla strada fino a quando incontro lo svincolo che conduce al Ponderosa Golf Club, lo sterrato con cui ci si arriva è divertente da fare in motocross, sgaso come un cretino facendo le curve in derapata, qualche abitante delle rare case mi guarda incuriosito, saluto con un cenno della mano. Dal club si gode un panorama eccezionale di questa parte dell'arcipelago, in totale solitudine; infatti il guardiano, appreso che non era mia intenzione cimentarmi sul green, torna alle sue pigre occupazioni lasciandomi solo. Mi godo una sigaretta cercando di distinguere le varie isole, la visibilità è ottima e si può chiaramente distinguere Batangas all'orizzonte, con le nuvole che perennemente vi stazionano sopra. Mi rimetto in sella ed in breve arrivo a White Beach che, pur essendo bella, non sembra niente di particolare, anche perchè le nuvole che erano all'orizzonte mi hanno raggiunto e dopo poco inizia a piovere a dirotto; al bar sono, fra i pochi presenti, l'unico occidentale, e puntuali come le bollette arrivano vari venditori a propormi le loro inutili mercanzie: bracciali, collane di perle, cerbottane. Declino gentilmente le loro offerte, loro insistono un po' ma senza speranza, hanno capito che non mi venderanno niente ma tentano comunque di contrattare per dovere. Aspetto rassegnato che smetta di piovere, sorseggiando la mia San Miguel ghiacciata; ma il cielo plumbeo in tutte le direzioni non lascia spazio alla speranza, per cui dopo un po' mi metto in moto e parto lo stesso. Per fortuna ho portato un poncho impermeabile. A dire il vero la pioggia è fresca e toglie l'afa, non dico che sia piacevole ma neanche da farne un dramma; più che altro è molto impegnativo guidare una moto così alta e leggera sul bagnato, ma vado con calma ed arrivo tranquillamente a Sabang, anche se sono da strizzare. Dopo aver riconsegnato la moto, vado a casa a farmi una doccia (calda) ed un pisolino. Mi cucino una mezza chilata di gamberi che mi sono comprato e finisco la serata giocando a biliardo al Big Apple Bar, pettinando un paio di idioti. That's all, folks!
Mi sveglio alle 7, come tutti i giorni ormai. I miei pigri ritmi milanesi sono un ricordo, mi piace alzarmi quando sorge il sole e l'aria è frizzante, anche perchè durante il tardo pomeriggio piove sempre (è la stagione delle piogge) e le spiagge assolate sono godibili solo fino ad una certa ora. Al porto recupero un passaggio in moto fino a Coral Cove, una baia di cui mi hanno parlato molto bene. La delusione, quando arrivo, è grande: la riva è un monnezzaio, l'acqua è torbida. Quattro ragazzi filippini stanno a ciondolare sotto un chiosco, mi verrebbe voglia di dir loro di darsi da fare e dare una pulita, che in mezza giornata la si può sistemare. Perchè il filippino ha questo vizio, che è anche un po' italiano: fa niente se fuori c'è il lurido e i topi che scorrazzano, basta che le piastrelle di casa siano lucide come specchi. Stendo il mio tappeto turco in un angolo di spiaggia meno schifoso degli altri, anche se lo scenario è desolante; fa male al cuore vedere quanto è bella questa spiaggia e quanto le "persone" ne abbiano fatto scempio. Mentre giro tra gli scogli per passare il tempo, catturo un granchio peloso con la testa delle dimensioni di un pugno di Tyson. Gli lego le grosse chele con uno spago e gli dò un nome: Freddy. Lo stuzzico un po' ma sembra narcotizzato dalla prigionia, per cui non infierisco e dopo un po' lo libero. Sono amareggiato dalla sozzura, e quando il noleggiatore di moto torna a prendermi gli dico "Ma in che cazzo di posto mi hai portato?". Mi elenca una serie di scuse che non capisco e che francamente mi interessano poco. A pranzo, per consolarmi, mi cucino salsicce e patate fritte. Poi, invece della solita pennichella pomeridiana, prendo il senitero che va ad ovest del paese, e dove finisce mi incammino sulle rocce; camminarci con le ciabatte è difficile, rischio fratture scomposte ogni tre passi. Ma ne vale la pena: dopo un po' arrivo ad una spiaggia lunga una ventina di metri, stupenda, pulita ed inaccessibile. Alle spalle mucchi di coralli portati a riva dalla marea, che ogni tanto franano su sè stessi con lo stesso rumore del vetro infranto. Dopo aver preso un po' di sole, mi dedico allo snorkeling, prendendomi una rivincita su Coral Cove. Mi stupisco di quante forme la vita possa assumere nella barriera corallina: conto sei diversi tipi di stelle marine (alcune molto bizzarre), una ventina di varietà di corallo e una quantità di pesci differenti. La frase del giorno è "la felicità procede per sottrazioni successive", infatti posso passare ore sulla spiaggia a fare niente senza annoiarmi. Ora è quasi sera e, tanto per cambiare, piove; ma io sono già sotto il mio portico, a guardare il mare ed a pensare che mi fermerò un altro giorno, ed una altro ancora, e così via. E chi si muove? Ma chi m'ammazza, qui al riparo con la mia San Miguel? "Il pleut des voix de femmes comme si elles étaiant mortes même dans le souvenir." Stasera ho il torneo di biliardo al Big Apple, per cui vado a prepararmi psicologicamente (dormendo).
P.S. Ho detto a Philip: "Questo è il classico posto dove vieni per stare due giorni, e poi ti fermi per due settimane". Lui si è messo a ridere e mi ha risposto: "A me lo dici? Io son venuto per stare due settimane e son qui da due anni!"
Il torneo di biliardo, ieri sera, è andato di merda, mi hanno eliminato al secondo turno. Sarà stato anche perchè, prima di cena, sono passato dal negozietto di Philip e ci siamo bevuti un litro a testa di Tamburay e succo di mango. Non avendo dormito nel pomeriggio, dopo cena (il peggior hamburger della mia vita, al Big Apple) ho avuto un collasso di sonno. Però non me la sono sentita di abbandonare l'allegra compagnia (Philip col team del Sea Riders), per cui li ho seguiti al Broadway per una scarica di San Miguel e qualche altra partita a biliardo. Sul palco il solito trio di smandrappone che esegue successi internazionali. Un uomo, un occidentale sulla sessantina e rotti, è diventato all'istante il mio idolo: ballava come un pazzo con un pezzo di fi..gliuola, senza volgarità, pieno solo di gioia di vivere. Ho pensato ai vecchi italiani, pieni solo di astio e di lamentele. Bisognerebbe organizzare dei voli charter e paracadutarli qua. Oggi mi sono avventurato con Philip nella mia prima lezione di sub; la prima lezione costa 2000 pp, l'intero brevetto Padi 14000. La cosa più difficile è stato usare le pinne, non sono abituato e mi sembrava di essere un mongoloide. Dopo una breve intro fra valvole e decompressioni, ci siamo allontanati dalla riva e senza neanche accorgermene siamo arrivati a 20 metri di profondità. In apnea, al massimo sono arrivato a 4-5 metri, per cui guardare in alto e vedere le sfaccettature della superficie così distante mi ha fatto una certa impressione. Ma ormai avevo preso confidenza con bombola e pinne e andavo spedito come un treno, tanto che Philip mi ha chiesto di andare più piano. Ma io ero come un bambino e seguivo ogni pesce strano che vedevo. Dopo la lezione, sono andato alla mia spiaggetta privata, questa volta però ben organizzato: scarpette per gli scogli e borsa impermeabile per la roba. Sono così riuscito a raggiungere un anfratto ancora più isolato e incantevole di quello di ieri, un po' saltando fra gli scogli ed un po' nuotando. I barcaioli passano e mi salutano da lontano, saluto e sorrido loro, tutti sorridono in questo arcipelago.
Le giornate scorrono serene, senza fretta, pilipino-time. Ormai la mia combriccola me la sono fatta, non sento la necessità di migrare altrove, qui ho tutto quello che mi serve. Mi diverto un sacco con Philip, che tra l'altro ogni tanto manda una sigaretta condita con leggera erbetta locale. Oggi abbiamo noleggiato due moto e siamo andati a White Beach, io lui Kathy e Trixie. Quanto mi diverto con ste monocilindriche, sgaso come un tabbozzo della Barona (Do you know Valentino Rossi? I teached him how to drive the motorbike). La spiaggia mi sembrava più bella dell'altra volta, forse per via del cielo sereno e dell'allegra compagnia. Abbiamo raggiunto una zona isolata e steso il mio tappeto sotto un albero, una zingarata alla grande. Dal ristorante italiano "La Vela" ci siamo fatti portare un piatto misto di pesce (725 pesos e faceva veramente cagare, non si salvava neanche una vongola, in più le cameriere erano degli inquietanti ladyboy). Anche lo snorkeling non ci ha regalato grosse soddisfazioni, ma nel complesso la giornata è stata divertente. Al ritorno ci siamo beccati la solita pioggia serale, e poi cenone a base di pasta (in mio onore) a casa di Philip, preparata dalla sua ragazza Kathy. Devo dire che, nonostante i miei funesti presagi, mi ha stupito cucinando un ottima pasta, cotta giusta e con un sughetto misterioso ma veramente gustoso.
Il venditore filippino non è insistente come altri asiatici, ma se volete liberarvene ci sono alcuni accorgimenti. Dirgli "No, thank you" è solo un invito ad insistere. Provate con "Hindi salamat", cioè no grazie in tagalog. Se questo non li fa desistere, dategli una lunga risposta in italiano (ad esempio: "Ma se ti dico che me ne hai fracassato tre quarti, ti allontani prima che io sia costretto a denigrarti pubblicamente e a buttare le tue cianfrusaglie nella sabbia?"). Questo di solito li lascia disorientati e voi potete tornare tranquillamente alle vostre occupazioni. So che sembra brutale, ma se si è gli unici occidentali sulla spiaggia si diventa una facile preda e dopo un po' la pazienza finisce, uno ha anche il diritto che non gli rompano le palle ogni tre minuti.
Le emozioni più belle, quelle che ti lasciano senza fiato, sono quelle inaspettate. Ti lasciano disarmato, rimani lì a ridere da solo. Ma procediamo per ordine. Mi sono svegliato presto, senza sapere cosa fare. Sono sceso in spiaggia e ho beccato uno dei ragazzi del Sea Riders, quello che sembra Jackie Chan abbronzato. Gli ho chiesto dove fosse possibile comprare un po' di roba per pescare, mi ha mandato da L.A.Hardware, una ferramenta giù in paese. Ho preso una lenza, tre piombi ed una decina di ami, ed al mercato ho preso un paio di pesci da tagliare come esche. Poi sono andato ai miei scogli preferito, sulla strada per Coco Beach, non prima di essermi procurato un lungo bastone da usare come canna ed un corallo ad L con la funzione di rudimentale mulinello. Neanche il tempo di buttare l'esca, ed è arrivato un barcaiolo rompipalle a dirmi che lì non c'era pesce. Certo, solo se ti noleggio la barca mi porti nel posto giusto vero? Gli ho detto che il pesce non c'era perchè mi stava col motore acceso a tre metri dalla lenza, e l'ho invitato gentilmente ad andare a cagare. Infatti, appena se n'è andato, cambio l'esca e ributto in mare la lenza, e tiro subito su un pesce non male. Galvanizzato, son stato lì un'altra ora ma non ho tirato su niente. Ma non mi sono demoralizzato, il mio intento era di rilassarmi senza stare proprio con le mani in mano. Dopo un po' ho deciso di scendere in acqua con la lenza e la maschera, ed ho preso un pesce di dimensioni ridicole; è stato più lo sbattimento di portarlo allo scoglio che altro, ma ho deciso di tenerlo perchè aveva dei colori bellissimi e veniva comunque buono per la zuppa. Quando sono sceso di nuovo in acqua, ho avuto l'incontro della giornata. Mi sembrava che ci fosse uno scoglio che si muoveva. Mi sono avvicinato e ho visto che era una tartaruga lunga quasi un metro, che nuotava placidamente vicino a me. L'ho seguita in preda all'estasi, son cose che se non le vedi non puoi capire. Nuotava lentamente, girandosi ogni tanto verso di me per capire se potevo essere un pericolo; ma in me c'era solo amore, una specie di ammirazione incondizionata di fronte ad una tale meraviglia della natura. Ogni tanto si appoggiava immobile sul fondo, guardandomi e brucando qualcosa, forse dei coralli, e poi tornava a muoversi. L'ho seguita per un bel po', ma ha iniziato a dirigersi al largo ed avevo paura di essere trascinato fuori dalla corrente. Tornando allo scoglio ne ho vista un'altra più piccola, scura con delle macchie gialle. Che belle, lanciavo bolle di gioia attraverso il boccaglio. Il bottino della pesca è stato abbastanza magro, tre pesci, ma non importa, ne è valsa troppo la pena. La serata? Solita sbiliardata, questa volta con Paul, un inglese sempre alticcio che però con la stecca in mano non sbaglia un colpo, infatti a parte una partita che ho vinto, le altre mi ha pettinato. Sbiascica, ogni tanto devo annuire senza aver capito, ma è un tipo alla mano e passo una piacevole serata. C'è anche Philip, ma è con una ragazza e dopo un po' li perdo di vista.
I filippini hano una passione sfrenata per il karaoke (o, come lo chiamano qui, videoke). I testi delle canzoni scorrono su video che non c'entrano niente, per cui capita di dover cantare "I will always love you" mentre sotto c'è un filmato di vale tudo in cui si massacrano di botte. Se uscite, vi ritroverete a dover cantare anche voi, a meno di voler passare per un noiosone. Poco importa se si è stonati, tanto il filippino medio canta come un cane ubriaco con la prostatite. Poi non sperate che la musica vi aiuti; ad esempio, io ho chiesto di cantare "Wish you were here" dei Pink Floyd, e quando è partita la base mi si è gelato il sangue nelle vene: sembrava "fra Martino campanaro" fatto con la pianola Bontempi.
Giornata di sbattimenti, fine delle mie due settimane filippine passate nel magnifico Mindoro. Dopo un ultimo bagno fra i coralli di Sabang, mi imbuco per un pelo sul traghetto delle 11:30 per Batangas. Arrivo, e con qualche difficoltà (viaggio come passeggero su una mototaxi guidata da un pazzo) trovo un ATM (bancomat) che finalmente mi sforna dei soldi. Ed eccomi sul bus per Manila, sdraiato come un pascià sui posti in fondo. A Manila prima brutta sorpresa, cioè la metro è rotta e rimango mezzora in fila sulle scale della stazione di Gil Puyol. Quando finalmente la metro arriva, siamo pressati come bestiame, e per motivi a me ignoti si ferma cinque minuti in ogni stazione. I filippini sembrano accettare con rassegnazione, io bestemmio mentalmente tutti i santi del calendario, arriviamo ad Abad Santos che sono arrivato a Santo Stefano. Come se non bastasse, piove a secchiate. Poggiato la zaino in ostello, riprendo la metro fino a Gil Puyol, vicino a Makati, dove sembra esserci un po' di movida notturna. Fuori dalla stazione prendo un triciclo (praticamente una bmx con abitacolo annesso. Chiedo al conducente di portarmi dove c'è un po' di nightlife, e lui poverino sotto una pioggia battente mi porta ad Adriatico Street. Sarà per il tempaccio, ma di movida ce n'è ben poca, sembra Ascoli in un lunedì di Febbraio. Ma non demordo, dopo due braciole di maiale mi infilo da Bedrock; l'inizio è promettente, locale niente male abbastanza popolato, palchetto con rock band grintosa. Ordino il solito Cuba e faccio la mia song request: ovviamente "Wish you were here", per vedere come la fanno. Sono come quelli che assaggiano il Big Mac in tutto il mondo per vedere se davvero lo fanno uguale ovunque. Quando il chitarrista imbrocca le note giuste, mi diventa quasi barzotto, penso "ci siamo!" Ma la cantante, non capisco il motivo, lo interrompe e parte con "Dancing Queen", una pietosa merdata anni '80. Sdegnato e deluso, chiedo il conto; ho già le palle che girano come la ruota del Prater di Vienna, e la cameriera completa l'opera: 369 pp per un Cuba ignobile. Gli chiedo se è sicura, e lei dice di sì, perchè era un double rhum and coke, anche se a me sembrava una Coca macchiata. Dopo triciclate e metropolitanate varie, eccomi in ostello: domani è il mio compleanno ed alle 14:30 ho il volo per Hong Kong, dove incontrerò Luca ed Ale e ci lanceremo alla conquista dell'immensa Cina.
E' il mio compleanno, e sono nel terminal 2 dell'aeroporto di Manila in attesa del mio volo. Ho comprato gli ultimi patetici souvenir qua, ovviamente a prezzo triplicato. Prima ho pure sbagliato terminal, e quel bastardo di tassinaro voleva 200 pesos per fare 3 minuti di auto; gliene ho dati 100 con tutto il mio disprezzo. Gli ho pure chiesto se c'era da pagare una tassa per lasciare il Paese, e lui no, vai tranquillo: infatti ci son da pagare 750 pesos, per cui altro giro al bancomat ecc. Al check-in mi fanno levare pur le scarpe, non sapendo a quali mefitiche molecole vanno incontro. Alla fine mi fanno passare, nello zaino ho un abottiglia e un paio di accendini ma non se ne accorgono. L'aria condizionata mi sta uccidendo. 

CONSIDERAZIONI FINALI

Le Filippine sono un Paese meraviglioso, fortunatamente ancora lontano dal turismo di massa pur avendo posti che nulla hanno da invidiare a mete più gettonate come la Thailandia. Sebbene non abbiano lo stesso spessore culturale, vantano dei paradisi naturali meravigliosi, splendide isole che soprattutto in bassa stagione (e la nostra estate lo è) possono essere esplorati senza il solito commercialista di Lodi intorno. I filippini sono cordiali e simpatici, sono ospitali e si prodigano perchè abbiate un bel ricordo del loro Paese. A parte alcune zone da evitare (il Mindanao, nell'estremo sud, è teatro di violenti scontri fra gli indipendentisti e l'esercito; e Manila, come tutte le grandi metropoli, che va affrontata con le dovute cautele), sono generalmente sicure, soprattutto le isole sono molto tranquille, a volte anche troppo. Ci sono più di 7000 isole da esplorare (è il secondo arcipelago al mondo dopo l'Indonesia). La nostra estate corrisponde alla loro stagione delle piogge, ma almeno dove sono stato io pioveva solo nel tardo pomeriggio ed ho avuto modo di abbronzarmi e di godere di tanto sole; anzi il Mindoro e le isole più interne sembrano abbastanza immuni dalle piogge, almeno così mi è stato detto. Il periodo migliore per visitarle va da marzo a giugno, ma anche a luglio non mi sono trovato per niente male. Per cui consiglio a tutti di andarci, vale senz'altro la pena passarci qualche settimana, magari saltando da un'isola all'altra, anche se sinceramente nella prima in cui sono stato mi son trovato talmente bene che da lì non mi son più mosso!