Siem Reap - Cambogia
Oggi lasciamo Bangkok alle nostre spalle in direzione Siem Reap, in
Cambogia. A noi si è aggregato Danilo, un ragazzo romano che sta girando
l'Indocina per disputare degli incontri di muay thai. Beh, di buon'ora,
dopo un giro inutile per trovare l'autobus giusto, zaino in spalla tipo
naja, partiamo con uno di quei pomposi automezzi dagli interni tra il
barocco ed un incubo kitsch; con noi altri gruppetti di europei ecc.
Fuori lo scenario thai scorre lento, velocità media 60 orari anche se la
strada è tipo la pista di un aeroporto vuota. Chiaramente, il tipo che
ci organizza il viaggio ci ha assicurato che alle 17:00 arriveremo a
Siem Reap. Non ha specificato però il giorno, furbo orientale. A
quell'ora stiamo più o meno lasciando il confine con la Cambogia dopo la
trafila del visto. Poipet è una città malconcia, casinò e miseria
appena oltre frontiera. Da lì in poi, ci buttiamo coi bagagli su un
pulmino che, già al nostro arrivo, manca di una ruota e perde
vistosamente olio. La strada, in sostanza, è una mulattiera a tre
corsie, con scarso traffico. La cosa che la caratterizza principalmente
sono le buche, tante, e le zanzare. C'è da dire che vediamo tantissimi
scorci di vita locale, la Cambogia è ancora abbastanza immune
all'occidentalizzazione forzata, ed ha una popolazione in cui gli
anziani praticamente non esistono visto i terribili avvenimenti degli
anni scorsi. Ci chiediamo, mentre passiamo vicino ad una risaia paludosa
al crepuscolo, "Ma secondo voi, questa è una zona a rischio malaria?".
Fra le risate generali ci facciamo una doccia di repellente per insetti.
In realtà le zanzare non sono così tante, ma potrebbero essere quelle
sbagliate, quindi meglio prendere precauzioni. C'è un gruppetto di
francesi delle prime file con cui scambiamo qualche chiacchiera, ma più
che altro siamo occupati a guardare fuori dal finestrino. Colline, il
percorso attraversa grossi paesoni la cui vita è la strada stessa . In
sostanza il viaggio diventa una divertente odissea, non oso immaginare
se avesse piovuto, avremmo dovuto mettere i remi fuori dai finestrini.
Pensandoci a posteriori, il mezzo più adatto è senz'altro una jeep.
L'autista, poco più che un ragazzino, si ferma un paio di volte per
collassare, si butta acqua in faccia, noi lo incoraggiamo, gli chiediamo
se vuole che qualcuno gli dia il cambio, infine gli diamo un paio di
redbull. Si fa presto buio. Salta l'impianto elettrico, che viene
aggiustato a martellate. Ceniamo in una locanda, molto ospitale, il
mangiare è gradevole ma il bagno necessita almeno di un esorcismo. I 160
chilometri più lunghi della mia vita, ma in fondo ci siamo divertiti un
sacco. Arriviamo a Siem Reap che è circa mezzanotte. La città si
presenta, almeno nel tragitto che facciamo noi, ordinata, alcuni grossi
hotel dall'aspetto rassicurante, molti dei quali con annesso casinò. Si
capisce che la città ha ottime potenzialità per attrarre visitatori, e
le vuole sfruttare bene. Noi, ovviamente, andiamo all'hotel dello "zio"
dell'autista, il Green Town, che non è male, camere doppie pulite a 5
dollari, un bel cortiletto con un bar. Domani entreremo ad Angkor.
Angkor
Dopo una notte sudaticcia, affrontiamo Angkor con i tuk-tuk dei
ragazzi della guesthouse. Naturalmente non ricordo i nomi di tutti i
templi che vediamo; è un posto che trasuda millenni da tutto, dalle
pietre, dalle piante immense che avvolgono con i loro tentacoli verdi e
marroni gli edifici maestosi. Camminiamo per ore in questo scenario
onirico, anche se il sole è a picco ci arrampichiamo sulle ripide
scalinate degli edifici, passiamo attraverso le imponenti radici degli
alberi. Ad Angkor Wat, ovviamente, il tempio principale si vede solo
scostando tonnellate di turisti. Molto meglio andare in orari meno
gettonati dalle orde in ciabatte, tipo l'alba. Passiamo la giornata
girando quanto riusciamo nel sito, sulla cui spettacolarità credo ci sia
poco da aggiungere. Indimenticabile, senz'altro. La serata, la passiamo
in diversi locali nel centro; Siem Reap si rivela essere una meta
notturna non priva di sorprese e divertimenti.
Tonlè Sap
Ci svegliamo con calma, la giornata ieri è stata abbastanza faticosa,
e decidiamo di dirigerci verso il lago, il Tonle Sap, il più grande del
sudest asiatico. Nella stagione delle piogge aumenta immensamente di
volume. Solita contrattazione con i ragazzi della guesthouse, molto
disponibili. Passiamo attraverso la vecchia Siem Reap, dove abitano
pescatori, poveri e miliziani, ovvero coloro che non si spartiscono la
torta del turismo in città. Il viaggio in tuk-tuk è piacevole, ci
fermiamo a vedere le case su palafitte. Il lago comincia quando ancora
non lo vedi, la stessa piattezza del panorama e le case sui pali lo
suggeriscono, pulsa a seconda delle stagioni. C'è un villaggio vagante,
che mi affascina molto, a parte per la bellezza in sè, anche per il
fatto che cambia nome a seconda di dove si trova. Segue i flussi del
lago, ed è abitato da una minoranza vietnamita, che si riconosce dalle
donne che si coprono il volto con una sciarpa di seta scura. Ci
imbarchiamo su una specie di barca con un tossicchiante motore a vista.
Uno dei ragazzi della guesthouse decide di venire con noi per farci da
guida. Il bacino acquatico è pieno di coccodrilli, alcuni dei quali
tenuti in gabbie, ci dicono per uso alimentare (li mangiano). Alcune
barche lunghe e affusolate ci si affiancono, sono piccoli negozietti
vaganti, e dei ragazzini giocano usando delle tinozze come barchette.
Tutto è sull'acqua, i ristorantini, le abitazioni; c'è perfino un campo
da pallacanestro galleggiante! Ci addentriamo nelle acque beige del
lago, un immenso mare colorato come la terra chiara, piatto come fosse
olio, cinto da canneti e arbusti.
Arriviamo in quello che sembra l'estuario di un fiume, lo risaliamo, è una scena che ricorda vagamente Apocalipse Now. Ad un'ansa del fiume, c'è un villaggio su palafitte altissime, la gente che lo abita è povera ma dignitosa, centinaia di bambini che vagano e accettano qualche merendina in dono, maiali, lucertole, le donne che lavorano ai telai, alcuni uomini si occupano di sistemare delle imbarcazioni. Passeggiamo per un'oretta, c'è persino un piccolo templio.
Poi, con una piroga a motore, andiamo a visitare una vicina foresta sommersa, surreale, le piante chiare emergono dall'acqua, dei ragni corrono sulla superficie e ci sono farfalle grosse come una mano. Ci accompagnano due signore con i loro figli e il ragazzo della guesthouse che è voluto venire con noi perchè qui non era mai stato. Il posto vale senz'altro la pena di essere visto, ci avventuriamo con calma nel silenzio, la maglietta in testa per i tratti assolati. . Durante la gita, una ragazzina cambogiana intraprendente che ha imparato un po' di inglese, ci spiega che lavoro fa suo padre, come vivono, come sono le piene del lago, dove ci sono i coccodrilli eccetera.
Danilo, non ricordo in che contesto, ha coniato una frase che diventerà un'altro ritornello del viaggio: "I'm a little bit afraid, to be fucked again!".
Arriviamo in quello che sembra l'estuario di un fiume, lo risaliamo, è una scena che ricorda vagamente Apocalipse Now. Ad un'ansa del fiume, c'è un villaggio su palafitte altissime, la gente che lo abita è povera ma dignitosa, centinaia di bambini che vagano e accettano qualche merendina in dono, maiali, lucertole, le donne che lavorano ai telai, alcuni uomini si occupano di sistemare delle imbarcazioni. Passeggiamo per un'oretta, c'è persino un piccolo templio.
Poi, con una piroga a motore, andiamo a visitare una vicina foresta sommersa, surreale, le piante chiare emergono dall'acqua, dei ragni corrono sulla superficie e ci sono farfalle grosse come una mano. Ci accompagnano due signore con i loro figli e il ragazzo della guesthouse che è voluto venire con noi perchè qui non era mai stato. Il posto vale senz'altro la pena di essere visto, ci avventuriamo con calma nel silenzio, la maglietta in testa per i tratti assolati. . Durante la gita, una ragazzina cambogiana intraprendente che ha imparato un po' di inglese, ci spiega che lavoro fa suo padre, come vivono, come sono le piene del lago, dove ci sono i coccodrilli eccetera.
Danilo, non ricordo in che contesto, ha coniato una frase che diventerà un'altro ritornello del viaggio: "I'm a little bit afraid, to be fucked again!".
Phnom Penh
Passiamo un paio di giorni nella capitale, la città sembra essersi
lasciata alle spalle gli orrori del passato. Locali carini sulle sponde
del lago, traffico, grandi stradoni invasi da motorini carichi di
qualsiasi cosa si riesca a mettere su un motorino. Il record che abbiamo
visto è stato cinque persone, polli attaccati dietro e cane nel
cestino. La città merita il soprannome di perla d'Asia, l'architettura
khmer si intreccia con quella coloniale e quella moderna dando vità ad
uno scenario davvero unico; inoltre la gente è sempre molto cordiale, a
patto che non si parli dei problemi del passato, un argomento abbastanza
tabù. Spesso si incontrano dei mutilati, che chiedono con discrezione
una piccola elemosina. Ad un bambino dò qualche dollaro per mangiare, lo
rivedo dopo che mi sorride e si tocca la pancia soddisfatto, mi vuole
abbracciare per ringraziarmi. Se uno cercasse un Paese per aiutare la
gente col volontariato o anche con un'offerta a qualche ente serio, la
Cambogia ha senz'altro bisogno di più di una mano.
I mercati sono degni di una visita, soprattutto il russian market, in cui ci si perde fra aromi, vecchi cimeli, seta e teste di maiale; i venditori in coro: "Ken ai elp iù, Luk insaid". Di notte, la città è gradevole, soprattutto sulle coste del fiume, ci sono dei locali e dei ristoranti non male (uno che consiglio vivamente è il Boat Noodle Restaurant, ad un blocco da Sothearos Blvd).
Visitiamo il complesso del palazzo reale, il museo annesso, i cortili ed i templi all'interno del perimetro. E' una città nella città. La Pagoda d'Argento (così chiamata per il materiale di cui è fatto il pavimento, in realtà un po' ossidato e malridotto) è senz'altro affascinante, e protegge un buddha che secondo me vale da solo la visita della Cambogia, il più bello e inquietante che abbia mai visto. E' a grandezza naturale, interamente d'oro, giada e tempestato da migliaia di pietre preziose, gli occhi sono due diamanti grossi come nocciole.
La nostra sistemazione in città è il J-Hotel, pulito e conveniente, con un piccolo casinò annesso per chi voglia farsi spennare un po'. Per spostarci, viaggiamo spesso come passeggeri dei moto-taxi, un'esperienza tipo sport estremo. Una delle attrazioni dei dintorni sono i poligoni abusivi, dove si spara con kalashnikov, lanciarazzi ecc.. Surreale il menù in uno di questi posti, dove fra le bibite ci sono anche i prezzi di bombe a mano, M-16 e lanciagranate.
I mercati sono degni di una visita, soprattutto il russian market, in cui ci si perde fra aromi, vecchi cimeli, seta e teste di maiale; i venditori in coro: "Ken ai elp iù, Luk insaid". Di notte, la città è gradevole, soprattutto sulle coste del fiume, ci sono dei locali e dei ristoranti non male (uno che consiglio vivamente è il Boat Noodle Restaurant, ad un blocco da Sothearos Blvd).
Visitiamo il complesso del palazzo reale, il museo annesso, i cortili ed i templi all'interno del perimetro. E' una città nella città. La Pagoda d'Argento (così chiamata per il materiale di cui è fatto il pavimento, in realtà un po' ossidato e malridotto) è senz'altro affascinante, e protegge un buddha che secondo me vale da solo la visita della Cambogia, il più bello e inquietante che abbia mai visto. E' a grandezza naturale, interamente d'oro, giada e tempestato da migliaia di pietre preziose, gli occhi sono due diamanti grossi come nocciole.
La nostra sistemazione in città è il J-Hotel, pulito e conveniente, con un piccolo casinò annesso per chi voglia farsi spennare un po'. Per spostarci, viaggiamo spesso come passeggeri dei moto-taxi, un'esperienza tipo sport estremo. Una delle attrazioni dei dintorni sono i poligoni abusivi, dove si spara con kalashnikov, lanciarazzi ecc.. Surreale il menù in uno di questi posti, dove fra le bibite ci sono anche i prezzi di bombe a mano, M-16 e lanciagranate.
Phnom Penh
Oggi andiamo a vedere Choeung Ek, uno dei campi di sterminio dei
Khmer rossi. La guida ci accompagna all'ossario, dove ci sono migliaia
di teschi accatastati. Camminando sul sentiero, vediamo che affiorano
dalla terra ossa e brandelli di vestiti, molte fosse non sono ancora
state scoperte. Su alcuni alberi, delle macchie scure indicano dove
veniva spaccata la testa dei bambini. Insomma, un luogo dal silenzio
impressionante e dal passato che grava ancora, non trova pace. Più
tardi, non contenti di atrocità, andiamo al museo del genocidio Tuol
Sleng, un ex edificio scolastico in cui i seguaci di Pol Pot
perpetravano le torture più agghiaccianti. Delle foto alle pareti
ritraggono le vittime, migliaia, e alcune delle aule sono state lasciate
come vennero trovate, con i letti di ferro a cui venivano legati i
prigionieri, le macchie scure sul pavimento, muri che trasudano urla e
orrore. All'uscita, alcuni mutilati ci chiedono senza insistere qualcosa
per mangiare, e anche noi facciamo un breve pranzo nel grazioso
ristorante fuori.
Il pomeriggio lo passiamo allo stadio a vedere un paio di incontri di boxe cambogiana, il biglietto costa mezzo dollaro e vale la pena. Metà dello spettacolo è fatto dal pubblico, che urla e si dimena per incitare il proprio campione su cui ha scommesso, l'orchestrina suona musichette ipnotiche al ritmo delle quali avviene il combattimento. Essendo gli unici occidentali e alti in media una spanna in più, la gente ci guarda con molta curiosità. Ci sediamo in una specie di tribuna d'onore, davanti ad un qualche politico locale, ed infatti dopo un po' ci chiedono gentilmente di spostarci. In serata, solita partitina a biliardo in qualche locale sul lungofiume; al ritorno, chiedo di poter guidare un tuk-tuk. Ma non sono proprio sobrio, e prendo in pieno un cordolo con la ruota sinistra, rischiando il ribaltamento del mezzo. L'autista mi guarda sconsolato e riprende il suo posto.
Questo paese trasuda acqua da tutte le parti, dagli onnipresenti corsi d'acqua, dalle pareti delle case, dai volti scuri della gente. I sorrisi delle donne cambogiane sono a mio parere i più belli dell'Indocina, larghi, un po' squadrati, e gli occhi hanno una luce diversa, ma forse è solo una mia impressione. E' un popolo coraggioso, che vuole dimenticare il suo passato e ricominciare dalle sue nuove generazioni. Bambini che giocano nudi nella spazzatura. Un battello, lo vedo ora dalla mia terrazza, naviga lentamente controcorrente. In strada passa di tutto, motorini carichi di pollame, trattori chopperati, risciò, bonzi in tre su una moto. Phnom Penh é una città che non si dimentica.
Il pomeriggio lo passiamo allo stadio a vedere un paio di incontri di boxe cambogiana, il biglietto costa mezzo dollaro e vale la pena. Metà dello spettacolo è fatto dal pubblico, che urla e si dimena per incitare il proprio campione su cui ha scommesso, l'orchestrina suona musichette ipnotiche al ritmo delle quali avviene il combattimento. Essendo gli unici occidentali e alti in media una spanna in più, la gente ci guarda con molta curiosità. Ci sediamo in una specie di tribuna d'onore, davanti ad un qualche politico locale, ed infatti dopo un po' ci chiedono gentilmente di spostarci. In serata, solita partitina a biliardo in qualche locale sul lungofiume; al ritorno, chiedo di poter guidare un tuk-tuk. Ma non sono proprio sobrio, e prendo in pieno un cordolo con la ruota sinistra, rischiando il ribaltamento del mezzo. L'autista mi guarda sconsolato e riprende il suo posto.
Questo paese trasuda acqua da tutte le parti, dagli onnipresenti corsi d'acqua, dalle pareti delle case, dai volti scuri della gente. I sorrisi delle donne cambogiane sono a mio parere i più belli dell'Indocina, larghi, un po' squadrati, e gli occhi hanno una luce diversa, ma forse è solo una mia impressione. E' un popolo coraggioso, che vuole dimenticare il suo passato e ricominciare dalle sue nuove generazioni. Bambini che giocano nudi nella spazzatura. Un battello, lo vedo ora dalla mia terrazza, naviga lentamente controcorrente. In strada passa di tutto, motorini carichi di pollame, trattori chopperati, risciò, bonzi in tre su una moto. Phnom Penh é una città che non si dimentica.
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